AMERICAN GRAFFITI.

Avevo come l’impressione che il tizio, me lo facevo un magrebino sui venticinque anche fin troppo inserito nella società, (tendenzialmente si è portati a provare un certo rancore quando si denota con quale facilità certi popoli, additati come inferiori, riescano a calarsi con rapidità nei nostri panni) o forse poteva essere uno di quei vecchi professori universitari che l’eccesso di esposizione alla carne fresca delle studenti, aveva trasformato in un mezzo erotomane incapace di arrendersi alla presa dell’età, (tendenzialmente si è portati a provare una certa ilare insofferenza quando si denota con quanta caparbietà la vecchia generazione tenti di rimanere aggrappata alla giovinezza), avevo l’impressione in ogni modo che, quale che fosse reale fra le due ipotesi che avevo presupposto, ci fosse, sopra la mia testa, quando ci transitavo davanti e non riuscivo a non alzare gli occhi per rileggerla, alle spalle di una persiana parzialmente abbassata e dentro un soggiorno in forte penombra su nei piani intermedi del palazzo, un ghigno osservatore dannatamente compiaciuto per l’effetto, che quella studiata scritta sul muro, provocava.

Il professor Kerboschy se ne stava seduto di lato lungo il divano che aveva accostato alla finestra. Dava sulla strada. Il soggiorno era quasi al buio se si escludeva un fascio di luce rettangolare che penetrava dall’inferiorità della persiana e taluni altri non organizzati fasci minori, che come traiettorie di fori di proiettile, l’esterno sparava dentro quel buco nero. Uno di questi, quello con minor angolo di penetrazione, attraversava tutto il soggiorno, correva lungo il corridoio superando le pile di vecchi libri di testo barcollanti come ubriachi alle pareti, tentennava nell’aria satura di, uhm, pareva di scendere ad una stazione di servizio autostradale, e appena dentro l’ingresso dell’unica camera, andava a ultimare la sua corsa cometica, sulla rosea (anche se ne l momento era decisamente arrossata) natica destra della signorina Lacherfoold.

Kate, chiamiamola Kate. Kate era sicuramente tra le più deliziose fanciulle del corso universitario. Università di Breston, Facoltà di Intendere (poco) e Volere (molto). Se non una delle più ambite, la nostra Kate, considerata la sua famiglia d’origine. La figlia del senatore ora, sembrava avere qualche difficoltà, dentro quell’ambiente improvvisamente straniero e senza un briciolo di sentimento, diciamocelo pure, non si poteva certo aspettarsi di trovare il romanticismo li dentro, aveva qualche difficoltà nel ri-infilarsi le mutandine.

Sarà stato che le gambe non smettevano di tremarle e avevano più che altro la consistenza del burro fuso. Sarà stato che nelle ultime due ore…vabbè… La signorina Lacherfoold aveva terminato la sua lezione privata di Storia Americana e le rimanevano pochi minuti. Per togliersi dal cazzo, come le stava gentilmente facendo notare il professore dal divano. D’altronde lo si sa, la memoria storica degli americani ha un corso molto breve.

E poi il professore stava aspettando la signorina, uhm, vediamo, forse era Gillian, o era Karren? No, no, Mcliam. Doveva essere Mcliam. Per il ripasso di? Di.

Bè per una ripassata, che importava. 

Il professore, il braccio destro penzolante lungo lo schienale del divano, la mano sinistra che sistemava delle cose ingombranti dentro le sue mutande, stava osservando compiaciuto l’ennesima scena giù sul marciapiede.

Ahhhahhahh, quale sollazzo!

Il tizio, uno dei tanti tizi, passa, nota l’anomalia, alza gli occhi sulla scritta, aveva un ottima calligrafia, ogni volta era costretto a ripeterselo, li abbassa verso il proprio pacco, piccolo pacco, e prosegue il suo cammino non rialzandoli più. Spesso li vedeva andare via con la coda fra le gambe. Ma non era quel tipo di coda che avrebbero desiderato.

Era una vera disdetta passare di lì almeno un paio di volte al giorno. Ma lo schema viario di Breston, non mi dava alternative. Batman, aiutami tu! Cristo. Era una vera e propria coltellata anche alle più strenue convinzioni.

Sapevi che non era così, ti sarebbe piaciuto che non fosse così, avresti voluto essere così per evitarti la fatica di doverlo negare. Complicato solo a pensarsi.

Arrivavo dal vicolo buio e umido, posti dove non batte mai il sole, poi l’immissione sulla strada che portava al centro. Eccola li, fottuta scritta di merda. In un bagliore di luci e flash. Come se sul tetto del palazzo, vi fossero centinaia di cameraman e paparazzi impazziti. Quel cazzo di muro era illuminato a giorno, tutto il giorno, ed era sempre li a guardarti ed ad indicarti con l’indice. Non li, un po’ più in basso. Non li, un po’ più in alto invece, lo scintillio del ghigno malefico e una risata profonda, che correva lungo tutto il palazzo, apriva porte che poi sbattevano, si incanalava lungo le trombe delle scale, usciva dalle porte d’emergenza e poi ti inumidiva il collo rincorrendoti dal vicolo. Una bocca di saliva…uuuaaaahhhhh aaaahhhh, uuuuuuuaahhhhh aaaahhhh!

F-A-N-C-U-L-O!

Ci avevo pensato a cancellarla, che credete. Solo era veramente imbarazzante. Avevo pensato ad un comitato anonimo di volontari indignati e offesi nel profondo. Le C.I.S., Crisi di Identità e Sicurezza, ci saremmo potuti chiamare. E ritrovarci una notte, a tarda notte, mascherati e incappucciati, con una latta di vernice bianca. Bè forse era meglio nera, nel caso schizzasse e gocciolasse qua e là. Non ero solo, ma eravamo tanti soli. L’unione fa la forza. A tutti mancava la forza per fare il primo passo.

Con la mia ragazza Betty le cose funzionavano bene. E se non funzionavano di tanto in tanto, ( di tanto in tanto mi è sempre parsa una terminologia molto ambigua per indicare qualcosa che accade un numero medio di volte) trovavo sempre delle vie alternative per fare in modo che lei venisse soddisfatta. Sono un tipo premuroso. In fondo ero fortemente convinto che la soddisfazione fisica fosse solo una parte di un rapporto funzionante. In quantità approssimabile attorno al. Venticinque per cento? E’ così vero? E’ così veroooo?

Mi sentivo un po’ insicuro da un periodo a quella parte.

Quando succedeva Betty mi elargiva di grandi sorrisi, così ampi che avevo paura da un momento all’altro le sue labbra saltassero schioccando come un elastico. Smettila Betty. Erano i sorrisi più falsi che avessi mai visto. E allora mi mettevo sotto di buona lena con metodi alternativi, fino a quando non vedevo la sua bocca, aperta, ma per altri motivi.

Continuavo a domandarmi se per una donna fosse la stessa cosa. Ma nessuno dentro di me rispondeva. Abito in un corpo di ignoranti. Sta di fatto che mi restava quel settantacinque per cento, in cui avevo tutte le facoltà per eccellere. E supponevo che, oltre che bastare, fosse anche una polizza di garanzia. Poi, un ulteriore dubbio iniziò a insorgere.

Avevo forse sottovalutato la possibilità di svalutazione di uno dei due elementi? Con l’andare del tempo, col perdurare di un rapporto, è più probabile che come safety bag, rimanga la componente fisica o quella psico-sentimentale? Partendo dalla costante fissa e irrimediabile del decadimento fisico e quindi, da un prevedibile conseguente calo dell’attrazione, io avevo decisamente votato per l’opzione numero due.

Chiesi a Betty la sua opinione.

:- Hai sentito della terribile svalutazione nei mercati ortofrutticoli internazionali del Cocumis Sativus ( il cetriolo)? Pare sia dovuta ad un eccesso di richiesta, mi rispose.

Capii di essere spacciato. Mi fu chiaro anche perché Betty in fondo, non si lamentava mai. Rimurginai sulla sua preferenza per i vegetali.

Quella sera tornai a casa e lei era li ad aspettarmi.

Il cielo aveva su una pelliccia di topo arruffata che ad andar bene poteva presagire. Scarichi in vista. Eppure c’era una luminosità come da giorno del giudizio tutt’attorno. Tonalità ocra su sottofondi violacei. Il muro era un grosso ematoma pulsante, con una vecchia cicatrice orizzontale. Una ricaduta sopra la caduta. Lo rifeci per l’ennesima volta. Guardai la scritta.

LE DIMENSIONI NON CONTANO.

SE CE L’HAI PICCOLO.

Diceva.

18 Risposte a “AMERICAN GRAFFITI.”

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