Barcèlona.

Il pick up carico dei bagagli disordinati del ritorno, corre sobbalzante in allontanamento dall’aeroporto, tremante del freddo metallico del parcheggio aperto, dove lo avevamo lasciato in custodia, li buono ad aspettare, per cinque nebbiosi giorni, il rientro dei padroni, come un cane scodinzolante e fedele. Ora ringhia e abbaia rumoroso, a coprire il suono screziato del mangianastri, lungo un indefinita statale a tre corsie. Scivola sull’asfalto oleoso, a rincorrere le coppie di doppi puntini rossi che lo precedono, a incontrare le coppie di doppi puntini bianchi che gli si fanno incontro. Tutt’ intorno un paesaggio di boschi di faggi e acacie stilizzati a matita nera, sullo sfondo viola della prima notte. A terra, tappeti monocromatici di foglie giallo ocra. Immagino lo stropiccio scricchiolante dei miei passi nel bosco silente e le gambe che affondano sempre di più, come nella neve farinosa d’alta montagna.

Sto rannicchiato nel sedile posteriore contro lo sportello sinistro. Rannicchiato come un feto dentro un utero, a proteggermi dall’impatto con il mondo reale nel quale sono troppo rapidamente precipitato. Come in un cambio di scena cinematografico, ricordavo di essere lungo un mare quasi caldo, ora sono disorientato in una landa nebbiosa, priva di punti di riferimento. Cerco varie posizioni comode per le gambe troppo lunghe, mentre la stanchezza nervosa mi tende i muscoli. L’abitacolo è silenzioso, sembra che nessuno abbia voglia di parlare. Non c’è niente da dire in effetti. Questo è tutto mondo conosciuto. La terra del rientro. Cerco di dormire per far scivolare il tempo, appoggiando la tempia sul montante vellutato fra i finestrini. L’asfalto irregolare fa sobbalzare verticalmente la macchina. Picchio nel dormiveglia assente, la testa con un rumore vuoto, sul vetro gocciolante e appannato.

I primi flashback.

Viali ampi travestiti all’europea, sfoggiano capitalismo da ventesimo secolo, delimitati ai lati da edifici monocromatici panna grigio sporco piccione, tutti portafinestra – terrazzino e cornici in marmo alle finestre ai piani alti e negozio, souvenirs, tapas, ristorante, italian pizza, megastore  ad altezza d’occhio e portafoglio.

Ad attraversarli etnie turistiche classiche, romano napoletane, aaoooo Ciro cazzo aspettamé, tedesche e anglofone, oh yes there are some american turist also, spagnole in gita fuori porta, spagnole in uscita fuori ufficio. Occhi a mandorla solo a tratti.

A viverle venditori da mercatini, artisti di strada, pakistani e sei lattine di birra, strani netturbini con canna d’acqua ad annaffiare il consumismo in esubero, spiaccicato sui marciapiedi lastricati di granito. Prostitute nigeriane e venditori di bamba coca, solo dopo le 24, please.

Strette budella laterali, pressate fra edifici che si innalzano unti e popolari fino al cielo, trasudano inizio secolo e arretratezza e abbandono e insofferenza di sinistra, aria portuale e vita da umili lavoratori, tra sacchi d’immondizia rimasti da raccogliere, torrentelli e laghetti di urina, serrande abbassate e rigorosamente graffittate, piccoli alimentari e mercerie pakistane open all night, radi locali tipici e caratteristici da sbirciare attraverso gli ingressi socchiusi, tra barbe lunghe, capelli in disordine, vestiti logori, aria fritta e fumi speziati a mezz’aria.

Contraddizioni dietro l’angolo. Dove sta la realtà?

Con gli occhi pieni di insegne luminose e movimento frenetico e fragranze firmate ai colli delle signore, giro l’angolo stretto e indifferente e sbatto contro un ostacolo invisibile e buio che mi appiccica i piedi a terra e mi aspira l’ossigeno dai polmoni. Guardo ai lati e sugli intonaci fatiscenti e nelle piccole finestre  vedo incisi apparire volti malandrini di pirati e sgualdrine, mozzi e arrotini, locandiere e assassini, mendicanti e madri che allattano. Sento il loro alito di vinaccia e rum, il sudore lercio di corpi non lavati, il ghigno sdentato, urla e pianti sommessi e vecchie cantilene.

Resto bloccato sull’ingresso. 

Sento l’alito caldo del ventesimo secolo che mi soffia rassicurante e profumato di menta, alle spalle. All’orizzonte, all’estremità del vicolo, una luce fioca mi indica che troverò di nuovo  accogliente e premuroso, il mio adorato duemila. Devo solo attraversare questo tunnel spazio-retro-temporale.

In alto, dove gli edifici  laterali alla strada, sembrano arcuarsi su se stessi sotto il loro stesso peso di umiltà e rassegnazione, fino quasi a toccarsi, una sottile striscia di cielo azzurro plastico, sarà la mia guida.

Cammino a passi cauti e in apnea, in un mondo senza ombre, aspettandomi da un momento all’altro, che una mano mi afferri di lato, trascinandomi all’interno di un’altra era.

Avvicinandomi all’uscita sul lato opposto, la vita riprende nuovamente a pulsare penetrando dall’apertura sul fondo, come deboli raggi di luce e suoni che filtrano attraverso un foro di pallottola dentro un cuore spento.

Ritorno alla realtà.

O forse sono nella finzione?

 

Ho provato infinite posizione ma ormai la stanchezza mi provoca un nervosismo irritante e uno spasmo costante ai muscoli. Accostiamo a destra in una stazione di rifornimento chiusa, in un paesaggio sospeso di nebbie e campagne arate d’autunno. I neon delle insegne filtrano una luce artificiale nella nebbia sospesa a un metro da terra. Scendiamo per sgranchirci, mi infilo la giacca sopra la camicia. Ha la stessa imbottitura calda degli orsacchiotti di un tempo. Dietro la stazione c’è odore composto di pianura, scarichi industriali, gomma d’autostrada, diesel e prostituzione veloce. Qualche fazzoletto e dei preservativi gettati qua e la. Una lattina di Sprite. Un sacchetto di Cipster. Ho fame e sete. Mi avvicino alla recinzione verde che delimita le campagne confinanti con le loro montagne regolari di zolle innevate di brina ghiacciata. Non si vede l’orizzonte, inghiottito a metà strada, dal cielo. Mi slaccio la lampo e faccio zampillare attraverso le maglie romboidali un getto fumante, cercando, come un bambino, di far sciogliere più brina possibile annaffiando a destra e a sinistra. L’aria umida mi scivola sotto la camicia su per il torace e la schiena, facendomi piacevolmente rabbrividire e sciogliendomi le tempie rigide.

Ripartiamo che la nebbia si fa pesante e densa e sembra che stia li ad aspettarti a una distanza fissa senza mai farsi raggiungere, promettendoti piacevoli e sensuali momenti e incantate lande se solo riuscirai a raggiungerla, scostare il sipario e infilartici attraverso, come sotto la gonna di una donna generosa. L’effetto della sosta è gia svanito e l’abitacolo sembra inghiottirmi e comprimermi sempre di più, come una compattatrice di rifiuti. Sento le ossa accartocciarsi su se stesse e i muscoli sfibrarsi. Cerco di dormire ancora, appoggiandomi questa volta con al fronte sul poggiatesta anteriore.

Altri ricordi.

 

Le ragazze di Barcèlona sono in genere, libellule flessuose dai movimenti eleganti e sinuosi. Corpi in maggioranza snelli e gambe affusolate e lunghe dentro ai jeans. Le ragazze di Barcèlona non sorridono quasi mai. Sul viso quell’aria severa e il labbro superiore un po prominente e arricciato all’insù. Il viso di un rosa chiaro naturale da pelle lavata al risveglio e gli occhi tendenti leggermente alla mandorla mediorientale.. I capelli lisci e scuri, in genere tagliati a media lunghezza in tagli classici o moderatamente disordinati. Vestono in parte all’occidentale, modaiolo simil elegante, con lo stile cavallerizza che va per la maggiore. E sono molto dominatrici e sensualmente mascoline all’occhio. L’altra porzione sta diametralmente all’opposto, dentro vestiti un po’ hippie un pò centro sociale, pantaloni colorati, gonne sopra il pantalone, scarpine, foulòar, capello ribelle e look trasandato. Sexy per le curve che si immaginano sotto le stoffe leggere. Ma le ragazze di Barcèlona non sorridono quasi mai. Solo ti scivolano veloci a fianco, a gruppetti di due o tre, con la loro parlata veloce e sibilante, di consonanti esse e zeta, fra le labbra sottili.

 

Mi sveglio che le montagne sono dinosauri neri al pascolo sullo sfondo, che hanno gia iniziato a inghiottire la pianura. Il cielo ha smaltito il suo colore violaceo da ematoma metropolitano ed ora è nuovamente blu terso dall’aria fredda e pungente e ossigenata di montagna. Costellazioni sparse di stelle nitide, come quelle disegnate a glassa zuccherata bianca, sui biscotti al cioccolato. Se solo questa dannata vista me lo permettesse,vorrei impararle tutte, per cercare un orientamento a questa vita errante.

Dentro al pick up ondeggiante in balia dell’asfalto, l’atmosfera sta decisamente cambiando. Sarà la ormai certezza dell’avvenuto rientro alla realtà quotidiana e la definitiva rottura del filo sospeso che ancora ci teneva vagamente in contatto con la dimensione fittizia e parallela del mondo vacanziero, ma d’un tratto ci troviamo in cinque come rianimati da un massaggio cardiaco e respirazione artificiale, a cantare a squarciagola vecchi successi commerciali degli ottoottotre. Cantare in tonalità quasi perfetta, senza steccature, con le parole che a distanza di anni, escono in fila ordinata dalla memoria, ha comporre testi indimenticabili sopra la base, che esce distorta, a livelli sfalsati, tra le testine mangiate dalla polvere.

Nelle pause fra i ritornelli, visualizzo gli ultimi fotogrammi, prima dei titoli di coda.

 

Un locale, ritrovo di poeti di inizio secolo. Una ragazza americana del Kansas. La lingua sciolta dal sapore di liquirizia dell’assenzio. La zolletta di zucchero che si caramella sotto la fiamma blu. Remoti timori annebbiati dall’alcool. Impallidisco davanti a questa ragazza dai tratti indiani, che gira, per lavoro e per hobby, città del mondo, alla frequenza in cui, io giro, gli sperduti paesini di queste montagne. Ho una parlata inglese tutto sommato decente. Sorrido compiaciuto, della sua spontanea naturalezza al dialogo, al rapporto personale. Arrossisco al contatto fugace e involontario, con la morbida consistenza dei suoi seni da pin up sotto la maglietta, al momento dei saluti.

Arrossisco e un caldo bruciore sulle guance e piccole perline di sudore sulla fronte raffreddano all’uscita, davanti a un popolo d’Espana che immaginavo più caldo e vivo, punto dalle banderillas del torero e attizzato dal rosso rubino del sangue del toro matato.

Invece è li, calmo e compassato, confuso tra folle di turisti, che, ignari, lo cercano altrove senza trovarlo.

 

Apro lo sportello e sono sotto casa, nella via silenziosa di gelo notturno.

Cumuli rinsecchiti di neve agli angoli, il lampione sospeso, che dondola ritmato nell’aria notturna, proiettando veloci ombre di fantasmi, che si rincorrono sulla facciata di casa.

La cucina è calda e accogliente, come il sole di mezzogiorno della Catalunia.

 

6 Risposte a “Barcèlona.”

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