BIAFRA.




Una volta che ero piccolo e giovane, ero anche così magro che un giorno mio nonno incontrandomi senza maglietta sulla statale mi disse: mi sembri un biafra. O un’biafra con l’apostrofo, che magari è uno stato femmina. Per via della sofferenza e della guerra. In effetti mi si potevano veramente contare tutte le costole. Tutte, tranne quella che avevo prestato alle femmine. Mio nonno che assomigliava a Clint Eastwood, aveva la camicia a scacchi e sopra il gilè di lana fatto da mia nonna. Con i ferri lunghi da calza e i gomitoli, ma neanche un gatto per casa. Non troppo sgargiante. Al nonno non piacevano gli eccessi. Grigio e verde scuro e blu. Mi ricordo che lui stava sull’altro lato della statale e ci aveva la zappa sulla spalla. Anche se ero veramente secco come un chiodo lo so che lui mi aveva detto quelle parole perché in cuor suo voleva che mi infilassi la maglietta. Aveva sempre avuto questa fissa di coprirsi e far coprire anche gli altri. Pure a luglio che ti pezzavi sotto le ascelle. Prendi le correnti d’aria, satanasso! Sarà che forse, ad essere stato in Russia gli era rimasto del freddo nelle ossa. Magari delle brutte immagini negli occhi che lo facevano rabbrividire. Satanasso e sacramento erano parole che ti facevano tremare le ginocchia ai tempi. Ti veniva qualcosa tipo il magone nello stomaco e tornavi subito a rigare dritto. Mi sa che i genitori moderni hanno versato così tanta ubbidienza e rispetto a padri come mio nonno, da restarne completamente svuotati. Solo così si può spiegare questa generazione di figli scapestrati che stanno tirando su. Hanno il polso slogato dalla scusa dell’ammodernamento dei tempi e dell’educazione.

Biafra era usato per scherzare qualcuno di molto deperito, tipo chi sembrava denutrito o malato grave da tanto era smilzo. I grandi lo usavano spesso e anche i bulli che andavano alle superiori e quelli più somari, che già lavoravano. Tutto veniva buono per darci fastidio. Che io avevo già delle terribili orecchie da cui guardarmi. Il Biafra l’ho scoperto poi, fu una repubblica secessionista della Nigeria, che durò un paio d’anni, prima del settanta. Vedendo come vanno le cose da quelle parti a tutt’oggi, pur che è passato il tempo e io mi son fatto robusto e muscoloso e il mondo più bello, posso immaginare che il nonno abbia visto i bambini negri con su le mosche anche al suo tempo, e ne abbia preso spunto per prendermi in giro. In Biafra dovevano essere negri e secchi e con le mosche anche con la tv in bianco e nero. Mi sa che ci sono cose che non cambiano. Il linguaggio figurativo se la prende con quelli a cui gli dice sempre storta: sfigato e pur macchietta per la storia. Non c’è giustizia al mondo, ma come potrebbe essere altrimenti. Anche questa è vecchia e sempre valida.

Di quei tempi, diciamo nella fase in cui ti spunta fuori tutto il pelo, stavo spesso in campagna a casa dei nonni. Per degli svariati motivi. Tipo che ero sfigato e con pochi amici, tipo che li ci stava sempre un qualche cugino con cui passare il tempo, tipo che ci abitai per un anno intero quando mio padre quasi quasi ci restava secco per delle robe di salute. Si potevano fare un sacco di robe da mocciosi semipoveri li, come andare in bicicletta sul vecchio ponte dismesso, costruire case sugli alberi, giocare a pallone nel piazzale sul retro. Usavamo, quando eravamo in più di uno, le casette di ricovero della legna come porta e un vecchio pallone degli anni cinquanta,  di quelli arancioni che si vedono nei filmati d’epoca sul football. Quando ero da solo invece, funzionava uguale. Ma il portiere e gli avversari mi toccava immaginarli. Li facevo sempre fortissimi, in ogni modo, per temprarmi. Ti capitavano anche delle attività più serie in campagna: ad esempio portare la merenda  e il vino col caffè al nonno nei campi, alle tre e quarantacinque. A volte per non farci passare per fancazzisti completi alla sua faccia da lavoratore, ci mandavano a fare l’erba fresca per i conigli, a cercare pigne per accendere il fuoco, nei boschi. O nelle vigne più lontane, a controllare se il tizio del consorzio irriguo, aveva acceso l’irrigazione a pioggia. Tornavamo sempre fradici. Non è comunque che fossimo dei teppistelli, anzi, per la verità, eravamo tenuti così fuori dal mondo e lontani dai nostri coetanei, che fu difficile impararsi alla vita e tanto più, alle più banali marachelle.

I nonni hanno per vicino un tizio che ancora oggi commercia le bibite. Il sig. Raffaello è uno proprio buono, che la solitudine lo ha reso triste e mansueto. Vive a tutt’oggi come nel dopoguerra, e se vai nella sua cucina a ordinare le casse di minerale Surgiva, ci trovi i mutandoni di lana stesi ad asciugare lungo un filo che corre sopra il focolare. Girare per le stanze e vederlo muoversi in quegli spazi ti da l’idea, attuale, di stare davanti ad un film di un qualche minimalista regista russo o nordico. Una macchina del tempo. Una ricostruzione storica, un set perfetto, colorazione quasi del tutto assente. Stanze stagne ed ingombre di depositi decennali, l’odore dell’immobilità, il cigolio del tempo in ogni rumore. I movimenti in punta di piedi, come vi fosse la mummia della storia da non risvegliare assolutamente. Sopra il magazzino del sig. Raffaello c’è la struttura incompiuta di un’ulteriore casa. Due piani. I muri perimetrali in mattone sono passati coi decenni, dall’originale colorazione arancio ad un tenue e slavato rosa. Lo stesso percorso della nostra pelle tra estate ed inverno. Un tetto, nessun serramento verso l’esterno. Due piani, collegati da una scala in legno sgangheratissima, praticamente marcia. Credo ci abbia potuti sorreggere solo per il fatto che eravamo veramente delle piume, al tempo.

Mentre scrivevo queste righe mi è tornato alla mente quanto di più variegato e abbandonato si trovasse in quegli spazi. Locali che da abitazione erano diventati un involontario museo a cielo quasi aperto. Un archivio incontrollato del vintage. Ma eravamo troppo lattanti per renderci conto ed essere partecipi di quelle disponibilità. Da vecchie casse di liquori in legno, a quotidiani sportivi post bellici, varia attrezzatura per l’imbottigliamento, scarpe, vestiario da lavoro, parti di biciclette, motori meccanici, qualche pezzo d’arredo, molto disordine. Forse qualche mia vecchia impronta, oggi. Ho un nuovo appartamento spiccatamente moderno che necessità di essere reso vissuto, più di quel che la mia sola presenza riesca a fare. Credo ci farò una capatina in cerca di qualche cimelio. Il sig, Raffaello non si lamenterà. Non lo ha mai fatto nemmeno per tutte le punizioni a girare che gli ho piazzato in terrazza. Colpa dei sassi sul campo di gioco. Non vedo, visivamente quei posti da più di cinque anni. Non ci entro da quindici. Eppure stanno a ridosso della casa della nonna, che diversamente, frequento con regolarità. Ma non ho più ginocchia da sbucciare e pantaloni corti da impolverare in pomeriggi oziosi e inconsci. Si cresce, mettendo chili, perdendo l’uso della leggerezza. Ho ora un’improvvisa ansia di sapere se è rimasto tutto intatto o se malauguratamente, è stata fatta pulizia.

2 Risposte a “BIAFRA.”

  1. una lettura emozionale ed è sempre un piacere leggere post scritti così; parole e suggestioni che spiccano da questa quotidiana volgarità a cui ci stanno abituando …In taluni casi farsi legare saldamente all’albero maestro. (per non menar le mani) è una frase santa e giusta 😉

    Salutissimi Mart …che qui in pianura, tutto è allineato e allora noi si guarda le nuvole

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