BREVE TEORIA DELL'INVISIBILITA'. (UN RACCONTO OBBLIGATO)



..era stata condannata a vent’anni per spaccio. Evasa, si era costruita, una nuova vita. Un nuovo nome, una famiglia. E’ stata casualmente identificata a tre decenni di distanza grazie alle impronte digitali. Ora, cinquantenne, dovrà tornare in carcere per finire di scontare la sua pena”.

Vi dirò. Per quel che è stata la mia esperienza, non vi è alcuna sostanziale differenza tra il carcere e l’ipoteticamente libera, vita esterna. Di più, per turbare le vostre convinzioni, aggiungerò che se proprio stiamo a parlare di vita nel suo significato più vivo, vissuto, degno e sudaticcio, le uniche persone riuscite in tale intento, la sottoscritta, le ha incontrate al fresco. Non la si può dibattere, ovviamente, in termini di moralità, regole, divieti, cioccolatini premio della nonna per la buona condotta. La popolazione carceraria non è per il controllo del colesterolo e per il salutismo. La popolazione carceraria sa. Sulle braccia e sui polpacci, sulle schiene e pericolosamente vicino al cuore, noterete frequente, la perizia o l’improvvisazione del tatuatore. Scoprirete nomi di figli prematuramente abbandonati, buoni propositi, incitamenti a nuove virtù, vecchi loghi nostalgici, l’immancabile nome della madre. E’ tutto un trucco. Elaborato fondotinta per gli occhi affaticati della sera. Tatuarsi è l’unico modo possibile per occultare alla vista, la rossa e indelebile abrasione lasciata sulla pelle, dalla vita. Questa è la verità. Al momento di ogni suo passaggio, di ogni incontrarsi programmato o dello scontro fortuito dietro l’angolo, l’esistenza ti segna a fuoco. Come quadrupedi da allevamento col marchio di qualità ben in vista sul fianco del culo. Difficile dire se sia per una questione puramente estetica o per la naturale repulsione del dolore, che tendiamo ad evitare questo appuntamento optando più comodamente, per delle meno invasive, cosmesi del corpo e stasi dello spirito. Difficile dire e scorretto giudicare. La stessa sottoscritta e qui benparlante, ha preferito appisolarsi nel limbo dell’eterna attesa, dopo le sue peripezie. La non vita causa dipendenza e non vi sono strutture per la disintossicazione. Dovremmo pensarci. Di tanto in tanto alle perfette famigliole, ai pensionati annoiati del bocciodromo, ai giovani in cerca d’identità, si dovrebbero proporre due settimane di soggiorno spesato al carcere cittadino. Vi garantisco che è come un cambio completo di sangue. Più ossigeno, globuli rossi vispi come spermi, un grandangolo professionale montato sul vostro vecchio punto di vista. Se c’è un’evidenza che si smaschera definitivamente mentre stai giocando sporco è che l’uomo, – nelle sue, incoscienza, innocenza o ignoranza, chissà? – è stato davvero un maestro nel complicarsi l’esistenza. Un creato rivisto e rivisitato in sette millenni comprese le domeniche: gabbie, limiti, vincoli, doveri, abitudini, sicurezze, stabilità. Tutto quanto insomma, volenti o nolenti, finiamo per fantasticare, rincorrere e infine accarezzare, per interi decenni, dall’età della ragione sartriana, all’orizzontale finale. Un percorso parabolico, passato a spingere il masso di Sisifo lungo l’ascesa. A fuggire quello di Wile E. Coyote nella discesa. E mi sia perdonato lo sfrontato accostamento.

Sono stata costretta dall’educazione – militaresca da parte di padre e cattolica da parte di madre, – a comportarmi da brava ragazza fino all’undici febbraio dell’anno 1964. Non che i tiranneggiamenti quel giorno siano improvvisamente cessati per una folgorazione collettiva sulla via di Damasco. Sarebbero durati ancora ed ancora, e sicuramente insisterebbero a tutt’oggi al pari del coprifuoco delle diciannove di un eterno periodo bellico. Avevo un carattere remissivo da gatta domestica, un posto riservato sopra la credenza, nessun grattino sotto il mento in cambio. Sarei finita per diventare, una cinquantenne prematuramente invecchiata, segregata in casa, irrecuperabilmente zitella. Senza uno straccio di pisello o di marito, mi sarebbe rimasta la sola incombenza di portare a spasso le dentiere traballanti dei due vecchi. Viale dopo viale, sempre controvento, nella paziente attesa che la folata giusta mi levasse l’onere di attendere, la fine della candela. Fortunatamente, l’undici febbraio 1964 al Washington Coliseum in Washington, D.C. si tenne il primo concerto americano dei Beatles. Io dei Beatles, non sapevo nulla. Mi chiamavo Maria Walsh, avevo diciotto anni non festeggiati con le amiche, e circa a metà pomeriggio, dopo aver eseguito tutti i miei doveri di ubbidiente e integerrima figlia, mi stavo avviando a compierne un altro, l’ennesimo della mia giornata. Camminavo lungo la strada principale del paese, in direzione della chiesa. Pasqua si avvicinava e le prove del coro parrocchiale avevano ormai assunto cadenza giornaliera. Nostro Signore non merita stonature, diceva mia madre. Cantai, non c’è che dire. Per dio se cantai. Con qualche ora di ritardo e non sul fianco dell’abside, ma cantai. Una sardina bianca di sale in una latta di colleghi sottolio. Un’orgia di corpi eccitati, lucidi di sudore, chimicamente assenti ma assolutamente ricettivi. Cantai un ritornello fino ad allora sconosciuto ma facilmente orecchiabile. Era Love me do. Love, love me do, you know i love you. E via dicendo. Suppongo lo conosciate. Tutto sommato credo, anche a Nostro Signore, non sarebbe dispiaciuto. Sempre di amore si tratta no?

Vi chiederete ora come la sottoscritta, sia finita a Washington, D.C anziché alla Sant’Anne Church quel giorno. Vi verrà anche il dubbio di perché e con quali motivazioni si sia ritrovata, qualche giorno dopo, in carcere con una pluri decennale pena, incombente. Vi incuriosirà soprattutto conoscere come, dopo un anno di detenzione, si sia scoperta improvvisamente e illegalmente libera. Vedete, la morbosità con la quale ci interessiamo agli accadimenti più o meno intimi delle vite altrui, non è che l’alternativa, a basso rischio e consumo, ai nostri irrealizzabili desideri di fuga dalla normalità. La polvere ci pesa sulle spalle ma alzarci e scuoterci per farla cadere farebbe raffreddare il giaciglio sotto le nostre flaccide chiappe. Molto meglio aspettare che il fiato di una risata lontana, un alito caldo di champagne e fragole, muova un po’ d’aria. Quel che è accaduto, è molto più banale di quel che possiate immaginare. Fantasticare, è comunque un’ottima alternativa, un buon esercizio, e soprattutto è esentasse. Mi sono spesso fermata a pensare che ne sarebbe stato di me se quel giorno. E se in quell’altro. Ma sapete: la decisione giusta risulta tale solo a fine esercizio. E non è detto sia fra i fattori dell’operazione. Si finisce per voler riscrivere il proprio passato perché si è ben consci di quanto sia obbligata e uguale per tutti, la scritta The End dopo i titoli di coda. Aspiriamo tutti ad essere romanzieri di pagine personali mai scritte, su fogli di carta non duplicabile, con copertine che lascino il segno. Aspiriamo ma ci scordiamo di espellere l’aria viziata, accontentandoci infine di una tiratura da grande quotidiano. Cinquecentomila copie, dal tabaccaio o spedite in abbonamento postale. Da consumarsi preferibilmente nelle ventiquattro ore.

Dicevo. Una vicenda banale, e per certi versi degradante, se la si guarda da un punto anche solo mediamente bigotto. Femminile o maschile, non importa. Una buttana mi divenisti, ricordo disse mia madre. The bitch of the family, per mio padre. Feci un uso più che legittimo del corpo, per come la vedo io, ora come allora, un uso naturale, carnale, vivo, spregiudicato e piacevole, assolutamente piacevole, ve lo posso garantire. Ve lo posso garantire care amiche, per quanto io sia convinta che voi lo sappiate benissimo. Lo sapete ma vi hanno educate a dimenticarlo e ad essere istruttrici a vostra volta di eterne amnesie generazionali. Ma sempre di peccato originale si tratta e l’originalità è difficile da stabilizzare. Fu in sintesi, una questione di seno. Seno inteso come ragionamento applicato ad una fortuna naturale che consisteva in carne, carne al posto giusto, e ossa ben modellate. Mia madre, nella disgrazia che improvvisamente per lei rappresentai, ebbe il grosso torto di trasmettermi attraverso il suo sangue, i suoi geni mediterranei. Labbra voraci, petto florido e fianchi larghi quel tanto, da far si che gli uomini si potessero tener ben saldi. A mio padre non bastò mandarmi in giro vestita come un aspirante conventista di clausura. Mio padre che poi era costretto a spiarmi da dietro porte socchiuse. I ragazzi con caschetto, i fabolous six di quel furgoncino Wolks, così come il direttore del carcere, avevano sufficiente fantasia per andare oltre quei poco femminili vestiti. Quel che successe nel durante e nel dopo, i perché e i come e i se, sono solo dovuti all’incontrollato movimento nel sonno, degli arti dell’universo. E all’assoluta volontà della sottoscritta, di non interferirvi in alcun modo. Fu una sorta di zona franca, libera da scalette, divieti di sosta e rimozioni forzate. Una deriva molto ventosa, in barba alle rotte e alla stella del nord. Ventiquattro mesi sugli attuali cinquantanni vissuti in un reparto di quarantena. Una quarantena capovolta. Lo spirito santo si beccò la porta sul muso, i buoni sentimenti lasciarono qualche falange tra lo stipite. I virus alitavano sulle porte stagne del reparto, impossibilitati ad entrare. I sani dentro, i malati fuori.

Poi tutto si indirizzò nuovamente, forse per la non reprimibile gravità terrestre che ci tiene ben ancorati a terra, verso una nuova normalità. I matti non guariscono, i sani si curano. Difficile dire, fra le due categorie, a chi vada peggio.

Il direttore del penitenziario mi tenne segregata con ogni cura come sua amante personale per un anno e più, in un appartamento apposito, in piena città. Non era molto diverso dal carcere. Se possibile era peggio per via dell’assoluta impossibilità di comunicazione. Non avevo nemmeno l’ora d’aria. Nessuna palpitante storia di vita da sentirsi raccontare. Dovevo solo aspettare sera, o primissima mattina, che lui passasse. Lui e nessun altro. Doveva aver messo in piedi un gran bel castello, tra fuga e quella sorta di nuova reclusione. Una gran testa d’uomo. Mirabile. Ma di tutti i periodi nei quali mi sono sentita prigioniera, questo fu sicuramente il più difficile da sopportare. Poi una sera si presentò con una nuova vita dentro una borsa da viaggio. Disse: Oggi faccio cinquant’anni. Guardami. Ne dimostro almeno cinquantuno. Sono invecchiato di bugie, di doppia vita, di attenzione ai dettagli. Arriva sempre il momento in cui il brivido del proibito lungo la schiena, si fa più gelido. Si assuefà all’adrenalina e passa a pura e semplice, paura, in questo caso. Mi lasciò tutto il necessario. Nuovi documenti, denaro: ero libera di scegliere il metodo per la ripartenza. Era come tornare al reparto di ostetricia, vent’anni dopo, meno rossa, meno strillante, ma senza tetta da cui poppare. Mi passai l’indice attorno e poi dentro l’ombelico, mentre pensavo.

Il giorno dopo sul treno, incontrai mio marito. Era bastata un po’ d’aria fresca perché gli eventi riprendessero nuovamente quell’accelerazione imprevedibile e incontrollata. In realtà fu il colpo di coda, una nevicata di coriandoli fuori stagione, che segnò la conclusione di quel periodo. Frank molto teatralmente salì sul vagone dall’ingresso opposto rispetto a quello in cui stavo e si annunciò. Signori e signore, buongiorno. Mi chiamo Frank Pollicino. Sono appena uscito dal carcere e mi mancano due dollari due, per poter comprare il biglietto che mi riporterebbe a casa. Se qualcuno di voi fosse così cortese da darmi a credito tale cifra, dopo cinque anni avrei finalmente la possibilità di rivedere la mia famiglia. In caso contrario, buon viaggio a tutti. Poi si era tolto il cappello, un basco in pelle nera, e si era lasciato andare ad un inchino davvero generoso. Era sicuramente una frase studiata a puntino e recitata vagone dopo vagone, ma in quello specifico scompartimento era del tutto inutile. Ero la sola passeggera. Dal fondo, alzai la mano, come una studentessa preparata e vogliosa di rispondere. Frank si avvicinò. Gli diedi un biglietto da cinque e lo pregai di portarmi qualcosa da bere, con quel che avrebbe avanzato. Era nuovamente li, pochi minuti dopo, con un paio di birre. Mi sono permesso, per farti compagnia, disse, occhieggiando verso la sua. Con Frank credo funzionò soprattutto per via della coscienza sporca che era comune ad entrambi. In questo caso, finisci per entrare poco nei dettagli personali e la cosa, ti evita un sacco di grane, semplifica le discussioni, ti rende la vita mento spigolosa di incognite. Il paradiso, richiede troppa precisione, diceva Frank. Lo annunciava soprattutto ogni qual volta finiva per macchiarsi gli abiti con il ketchup. Frank è la nazione con il maggior consumo mondiale di ketchup, dovete sapere. Roba da sballare tutte le statistiche dei ricercatori nello specifico campo. E’ ghiotto di quel malsano condimento in maniera disgustosa. Il tuo cervello deve averlo scambiato per dell’ottimo sangue ossigenato, non c’è altra spiegazione plausibile, sono solita dirgli, quando lo prende una delle sue frequenti crisi d’astinenza. Robe da matti. Eppur già dai giorni successivi al nostro incontro mi lasciai trascinare per metà degli stati dell’ovest finché Frank non trovò uno degli stabilimenti della Heinz che lo assunse nel reparto salse. Heinz è il primo produttore americano di ketchup. Lo potete riconoscere per la confezione a forma di pomodoro. Io vi dico che li dentro il pomodoro ci passa solo per sciacquarsi le ascelle. Frank, che ora naturalmente, conosce a memoria tutti gli ingredienti, il processo produttivo, di conservazione, di distribuzione e vattelapesca, giura che non è affatto così. In ogni modo la sera dopo il suo primo giorno di prova, mi portò fuori a festeggiare. Era macchiato di rosso da testa a piedi dato che lo avevano messo, in quanto novellino, al reparto – verifica prodotti difettosi – . Sarebbe diversamente, potuto tranquillamente passare per un pluri accoltellato, miracolosamente sopravvissuto. Dati i suoi noti trascorsi, mi era più facile immaginarlo nella seconda veste, capirete. In ogni modo, al termine della serata, in tutto quel tripudio di rosso, – il rosso in questo specifico caso è proprio il colore dell’amore, non si può negare – mi propose di sposarlo. In quei pochi giorni avevamo diviso e condiviso come massima punta d’intensità, il passato, e vari scompartimenti di treno. Mi sembrò un buon motivo per accettare. Almeno per un paio di mesi avremmo avuto dell’altro da scoprire, e male che fosse andata poi, non avremmo fatto in tempo ad infrangere alcun record di durata minima delle nozze. Questo è sempre un buon punto a favore nelle discussioni con vostra madre quando verrà ad elencarvi i vostri fallimenti, un giorno. Mamma! Sei mesi. Abbiamo comunque fatto meglio di molti altri. La sottoscritta in realtà non correrà il rischio, dato che la resa dei conti c’è già stata. Bocciata senza appello, a distanza, senza ammissione di prove a discolpa. Perfino il giudice che mi appioppò la pena, si lasciò la chance di rivedermi, dopo vent’anni. Mia madre no.

Stiamo resistendo da una trentina d’anni, infine, io, Frank e l’intera famiglia Pollicino. In realtà non vi è, e non vi è stato, alcun resistere nel senso dello sforzo. E’ un opposizione agli eventi senza fatica, così come si fa contro al vento, che per tutta la vita ti soffia in faccia. Se non abiti a Trieste o in Patagonia è un semplice esercizio naturale, come camminare, infilarsi a letto, avere un tic nervoso, giocare con il lobo dell’orecchio. Vivere nella sua versione standard, è essenzialmente combattere la noia con tecniche – che hai più toccano in sorte e per le quali non vi è alternativa – altrettanto noiose. Ma è già una noia sotto radice, ed è un discreto passo avanti. Sentirsi costantemente vivi, è la versione delux del pacchetto, ed è tutt’altra cosa. Ma seppur si finisca tutti, chi prima chi poi, chi con più desiderio chi per pura curiosità, per desiderarne l’acquisto, pochi sono quelli che infine, si addentrano nell’impresa.

Vi è una cosa, davvero ammirevole nell’animo umano: è la capacità e l’abitudine alla rinuncia. C’è un’altra cosa, invece, nella comunità umana, altrettanto riuscita, ma meno degna di merito. E’ la capacità di rendere anonimi i partecipanti. Nascondersi per volontà, rendersi fantasmi, o diventare invisibili per indifferenza generale, è quanto di più semplice tu possa scegliere di fare o ti possa capitare di dover sopportare. Il ventre grasso della società, sta fra le caviglie sottili erte sul tacco laccato e le labbra al silicone che sporgono sopra il sorriso a troppi denti. La terra è obesa al centro e fra le pieghe della pancia e dei fianchi viviamo in gran maggioranza, in una densità folle, perennemente costretti tra le linee di demarcazione dell’elastico della mutanda e del ferretto del reggipetto.

Un cambio di generalità è assolutamente inutile, a questo, – ma suppongo a tutti i migliori o peggiori – , strati sociali. Che io sia Maria Walsh o la Nuova Susan Lefavre in Pollicino è assolutamente irrilevante data la facilità con la quale, posso, potete, rendermi latitante, non solamente in termini legali, ma soprattutto in senso umano, di essere con una massa e dei pensieri.





Una risposta a “BREVE TEORIA DELL'INVISIBILITA'. (UN RACCONTO OBBLIGATO)”

  1. azz e anche ostia! Sior Mart qui bisogna incominciare a stampare su carta questi post-letterari interessante concetto su libertà ‘regole’ e consuetudini …anche se poi il pezzo è obbligato 😉

    un saluto estivo Mart anche a quei musoni della Squola Kreativa :-DDD

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