CAPEZZOLI DURI.




Alla mattina il tempo che mi avanza dal trucco, me lo passo seduto sulla ceramica a leggere qualche pagina di Cèline. In base ai minuti residui, due tre, fino a sei pagine. Poi mi tocca venire all’ufficio. Poi dicono che il lavoro fa bene. Passi dal paradiso della toiletta, all’inferno da protrarre per l’intera esistenza. Voglio sbilanciarmi. Viaggio al termine della notte è tra i migliori libri mai scritti. E non so se il sottoscritto ne ha letti altri fra i migliori. Ma facendo un rapido rimbalzo di presupposti fra le meningi, mi vien da credere che sia difficile che qualcuno abbia potuto, o potrà, fare di meglio. Qualche vecchio sarà sicuramente arrivato in zone limitrofe a tal piacere letterario. Poco di più, poco di meno. Sui giovani ho poche speranze. Certo. Ci sarà chi ha da ridire. Ma io sono tollerante. Continua pure a leggere i libri delle ricette, non faccio storie. Basta che mi inviti almeno a pranzo, poi.

La vedo nera. Nera con la lampadina fulminata. Ho questa vaga impressione che il tempo che scorre veloce ed implacabile abbia una falla al serbatoio della qualità. Una lunga pisciata sottile nel centro dei binari, e alla fine, il vostro treno dell’alta velocità fermo come un coglione in mezzo alla campagna. Vienimi a rimorchiare, baby. Ti mando una vecchia locomotrice a carbone. Sbuffa, gli fumano le cosce come ad una vecchia baldracca. Ma come ci da dentro, ancora. La qualità è tua nonna lenta. Quarti d’ora per un istantanea. Ma certi arrosti che non te li scordi più. Ai tempi del bianco e nero non esistevano le guance arrossate. Ai timidi gli andava di lusso. Farsi capire era come spiegare un orizzonte ad un cieco. Ti ci va dello sforzo, la fatica ti migliora. Adesso non serve spiegare niente a nessuno. C’è assoluta visibilità, ci si fa presto l’abitudine al bello e al brutto, fino a diventarne indifferenti.

Chissà se un giorno finirà che ci prenda a noia anche la fica. Non lo so, io devo ancora cominciare, non faccio testo. Però son stufo solo al provarci. E’ un impressione. Ma è innegabile che le risorse a disposizione all’oggigiorno, facilitino a tal punto le realizzazioni, da banalizzarle. Quando stai di fretta, un saltarello dietro le impronte fresche dei tempi moderni, finisci inevitabilmente per dimenticare. Qualcosa, qualcuno. Ad esempio, un paio di chiavi, la patta aperta. Il gas acceso. Il piacere del tempo a disposizione. Un cazzo di amico. Son cose che si pagano. Il giorno che raggiungi l’obiettivo e gli poggi la mano sulla spalla per farlo girare. Sarà bionda come l’hai sempre vista di spalle, ma si chiamerà Franco. Un vecchio metallaro, irriducibile fan di Robert Plant.

La mattina che esco dal mio bagno, caldo, incensato e dotto del mio amico Luis Ferdinand, nel resto della casa trovo una siberia. Normale se hai aperto tutte le finestre dieci minuti prima. I capezzoli mi saltano su come marmotte fuori dalla tana. Fischiano. Porco dio che freddo.

Nelle prime trecentosettantotto pagine ci sono tre bestemmie bell’e buone. Per questo vi dico è un gran romanzo. Mica perché mi va di fare il sacrilego. La bestemmia perde il suo significato d’offesa e smette di farti sentire in colpa quando ti cacci finalmente fuori dal barattolo del bianco. Il sacramentare è un quadro di sintesi di sensazioni e situazioni che non si possono rendere con altri colori. Ne con altre colorite espressioni.

Alle sette e quarantacinque l’orologio del forno elettrico segna le sette e quarantanove. Lo tengo avanti di qualche minuto per non fare tardi. E’ un placebo noto che quindi funziona solo in parte. Ma quel che mi basta per arrivare puntuale. Il mio vicino di casa è un tizio strano, mica tutto in bolla. Viaggia con qualche istante d’anticipo rispetto a me. Lui fiero delle sue nuove bretelle e di una cirrosi che lo fa sempre più scarno. Fischietta e canta motivetti non regionali, di un allegria nei testi che sospetto romagnola. Se ne va in campagna con qualsiasi tempo, che fiocchi che piova, alle sette e quarantaquattro mentre chiudo le finestre, lui esce dalla porta e inforca la macchina.

Devo ammettere che quando riesco, lo evito.

Me la sta sempre a menare con questa storia del lavoro.

Allova, con qveste stvade? mi chiede.

E’ moscio anche nella erre, ben prima che nel fisico. Mi dispiace, mi chiedesse qualcosa d’altro, giuro, due chiacchiere me le farei. Sono un tipo solidale. Questo qui c’ha bisogno di sfogarsi. La moglie è un tiranno. Un cristone di donna del sud che me la vedo dargli di brutto, a braccio aperto, tante botte. S’è pure invischiata con quelli di Geova negli ultimi anni. Vedo entrare ed uscire i tipici personaggi di tanto in tanto, in quella casa. A volte tocca sorbirmi via audio, le ramanzine che tira al marito. Certi monologhi. Sentire litigare la gente attraverso i muri è quanto di più spiacevole possa capitare. Gli impropéri viaggiano su frequenze che nemmeno le sirene conoscono. Ti puoi tappare tutti gli orecchi che vuoi, alla fine saprai tutto, per filo e per segno. Lo andrai anche a raccontare in giro.

Quando hanno finito lui se ne esce sul terrazzo a fischiettare. A cercare di adescare qualcuno giù in strada. Un passante con cui dissimulare la pena.

Cvedo che vevvà a pioveve!

Ma non c’è una nuvola!

Piovevà le dico.

Va bene, ha ragione lei. Buonasera!


Cose così, tristi.

 

3 Risposte a “CAPEZZOLI DURI.”

  1. maestro Mart, mi prendo l’appunto del sig. Cèline, che mi pare una brava persona con tutte le sue madonne al punto giusto …quanto ai vicini io diffido sempre di quelli troppo silenziosi, ché a volte sembrano così rancorosi da nascondere un olindo in erba.

    Un buon we a te, che se non piove nevicherà

    (cose tristi) 😉

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