CICLISMO.




All’olfatto, i fiori del sambuco a fine fioritura, mi danno la nausea. Potrei dire solo ad un eventuale terapeuta, cosa mi ricordano, non senza taluni imbarazzi. Mi tocca di alzarmi sui pedali per un cinquanta metri, per levarmi dall’impiccio. Vengo via agile e ciondolante come uno scalatore spagnolo magro e in aria di doping. Venti pedalate e mi rimetto in posizione da cicloturista, che già non ne ho più. Tre squinzie sul marciapiede mi stimano con l’aria di chi la sa lunga in fatto di uomini, certe nel bocciarmi come delle quarantenni, che di maschi ne sanno tanto da averne ormai piene le tasche. Abbasso lo sguardo offeso, non prima di aver apprezzato il contenuto della canottiera rossa della tizia di destra ed aver invidiato il suo fidanzatino. O meglio. La fila di tipi che probabilmente nel prossimo quinquennio, se la faranno. Certe scene ti fanno fare una retromarcia nel tempo e ti costringono ad imbarazzanti paragoni, tra certe tue età bibliche, ed i tempi ultramoderni. Questi giovani, a me adulto, mezzo anziano, vecchio, provocano qualcosa che sta fra l’impraticabilità del campo e la consapevolezza di morire fortunatamente entro i prossimi cinquant’anni, e non vedere. Accelerazioni temporali così repentine, da provocare un vuoto d’aria allo stomaco. Come quando mio padre, riportandomi in collegio la domenica sera, prendeva troppo forte il dosso su Viale Verona, ribaltandomi pancia e groppo in gola. Il collegio. La simulazione dei gol della domenica sportiva, con un Subbuteo artigianale costruito con i Lego, e giocatori misti, tra cui spiccava la gomma a forma di orso, ma bipede. Le partitelle nel piazzale della signora Elsa. Tra l’odore delle merde di gatto e il poggiolo coi gerani incombente. Lady, la cagna nera come un arbitro, che ringhiava attraverso il cancello dell’orto, a toglierci quel poco di tranquillità. E ancora. Certe partite a nascondino. Un po’ più tardi. Le prime prove con la vespa sulle strade di campagna. Un amico che sopportavi per necessità, perchè era l’unico, che impennava la tua, di vespa. Il filo dell’acceleratore che saltava. La solitudine. I cugini. E. E poco altro. Che gli anni ottanta erano poveri di possibilità, di occasioni, di concessioni dall’alto, di spritz. Vent’anni dopo, al paesone, poco è cambiato. Una faraonica rotatoria, un bypass in galleria in via di ultimazione, l’illuminazione pubblica che ha svoltato sull’arancio. Giusto per sembrare più periferia cittadina, che vallata agricola. E poi le quarantenni che escono a camminare o a pisciare il cane in gruppo, per tenere chissà quale linea. Tutto qui. Allo stato effettivo delle cose, solo la pubertà può dirsi realmente cambiata, nel senso dell’essere al passo coi tempi nazionali. Sulla qualità dei tempi poi, ci sarebbe da discutere a lungo.

Imbocco la rotatoria, e prima che le dimensioni mi facciano montare l’invidia del pene, riesco ad individuare l’uscita per il raccordo anulare. Dai locali della centrale elettrica a servizio della nuova galleria, esce il profumo del calcestruzzo in maturazione. Ne respiro a pieni polmoni, un paio di boccate. Idem con l’asfalto steso da pochi giorni, che sa piacevolmente di catrame. In tempi di castelli di carte, di progetti non approvati, di delibere che non arrivano, le grandi opere durabili, mi inebriano la mente.

Parcheggio la bicicletta che non fanno manco le ventuno. Ci sono certe vecchie, che vanno ancora a spasso.

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