DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI AMORE. (OLTRAGGIO A RAYMOND CARVER)




Qualche mese fa mi si è presentato alla porta un tizio. Più correttamente, si dovrebbe dire che me lo sono trovato dinnanzi sull’uscio, mentre me ne stavo uscendo di casa. In fondo alle scale, ho tirato la porta ed era li. Col suo dito indice, e la mano intera e anche i vestiti, sporchi, sporchi di quel nero che si accumula sui vecchi solo per il fatto di essere tali, stava, nel fotogramma precedente allo suonare il campanello. Lo ho anticipato. In piedi, sul primo dei due gradini esterni, una corda lunga qualche metro, arrotolata sopra la spalla sinistra. All’estremità, un gancio arrugginito, una sorta di arpione. Non ricordo se portasse qualcosa nella destra.  Ci siamo guardati. Lui aveva la faccia rubiconda, l’espressione sbronza dei vecchi del bar, i vecchi del tresette e del rosso, il bar deserto nella strettoia del paese. Mi sembra eccessivo, ma credo avesse anche un sorriso. La stessa espressione di un vecchio conoscente che ti si fa di fronte con una mossa preparata, dopo qualche anno. Uh Uh! Sorpresa!

Sono venuto per la neve, mi ha detto.

Ho inclinato la testa verso destra e arcuato le sopracciglia come se da quella diversa angolazione avessi potuto trarre maggior significato da quella comunicazione. Era inverno. Neve in effetti ve ne era, cadaverica ma discretamente conservata, in abbondanti cumuli sul fianco della strada, contro le case,  messa all’angolo, suonata come un pugile, giustificata unicamente dove non potesse dare fastidio. Il resto era ghiaino sottile, sparso ovunque, che se non t’ammazzava il ghiaccio, ci avrebbe pensato lui.

In risposta alla mia perplessità, il tizio ha indicato qualcosa sopra la sua, le nostre teste. Dalla falda a nord del mio tetto, suppongo per i normali fenomeni notturni e diurni di gelo e disgelo, una lingua di ghiaccio e neve, penzolava, via via che passavano i giorni, sempre più lunga, sempre più sporgente, nel vuoto. Sarebbe crollata a terra, com’era inevitabile, prima o poi, al termine del suo ciclo vitale, com’è per tutti. Era spettacolare a vedersi, con la sua parte inferiore lucida di ghiaccio e perfettamente ondulata dallo scorrere sulle tegole e la sommità, abbagliante, neve candida e molle, trafitta da grissini di luce, aromatizzati all’ozono. Avevo scattato anche delle foto e non era, ne per me, ne per nessun altro, realmente pericolosa, a patto di non aspettarla, li sotto, come una fidanzata tardiva, perfettamente messi in verticale sulla sua parabola. In quel piazzaletto eravamo ben in pochi a necessitare di transitare in realtà, ma già da qualche sera, conciliaboli di cassaintegrati e prepensionati, si erano formati a varie ore, appena fuori dall’arco di tiro, dell’ipotetica catastrofe. In consulto, come davanti ad un improvviso bubbone pestilenziale, ad una destabilizzante eruzione cutanea sulla pelle di una sanissima diciottenne. Pensierosi e desiderosi di dare una soluzione al problema e alla noia delle seppur brevi giornate di gennaio, avevano rimuginato e millantato soluzioni e infine fallito, anche con la lunga latta in legno che generalmente si usa per battere i ricci sui castagni. Avevo iniziato a sperare che avessero definitivamente desistito e invece eccoci qui.

Seppur non lo vedessi a figura intera da quando ragazzino, poco distante da casa sua, tiravo pallonate ai gerani della signora Elsa, e nonostante nell’ultimo decennio mi fosse sfilato a fianco frequente, ma sempre dentro la sua motoretta verde a tre ruote, mi parve di riconoscerlo. Era lo sporcaccione del quartiere.

Al paese ogni quartiere, ogni via, ha il suo vecchio maiale. Settantenni con ancora qualche appetito, improvvisati voyeur, artisti della mano morta, maestri del doppiosenso. Robe così, niente di grave sotto il sole, in realtà. A quanto si mormorava in giro, al Sig. Berri, uno sfortunato pomeriggio, era caduto un giornalino porno, qualcosa tipo Le Ore Mese o Stantuffami, dalla finestra, giù sul sottostante terrazzo dei vicini. Imbarazzante, non c’è che dire. Questo era bastato, ma vi assicuro a volte basta anche molto meno, per una revisione generale e generalizzata, del suo curriculum. Al paese esiste un solo, rapidissimo, grado di giudizio, nel quale, la presunta innocenza, non è, ne il punto di partenza, ne tanto meno quello di arrivo. Nessuno che si sia preso l’onere, ad esempio, di verificare se le pubblicazioni porno, abbiamo capacità di volo anche dal basso verso l’alto. Proprietà di decollo, signor Giudice. Considerata la quantità di uccelli contenuti, terrei a non escludere l’ipotesi.

Chi ti ha mandato? gli ho chiesto.

Con lo stesso indice con il quale poco prima aveva sfiorato il campanello, ha indicato, braccio teso verso sinistra, l’ingresso dei miei parenti.

Ah! Ho annuito. Per quanto mi riguarda, per quel che è la mia parte di quota della copertura, tu li sopra non ci sali. Non voglio avere grane per uno che si fa un volo dal mio tetto, gli ho fatto presente.

Ma!, ha tentato di protestare,  indicandomi la corda.

Era così consunta e lui così convinto di far bene, che non so quale dei due, mi trasmettesse meno fiducia.

Vai da loro, ho fatto cenno con la mano, e se si prendono la responsabilità, fatti dare le chiavi, ho chiuso con decisione.

Io non ti faccio salire, ho aggiunto, facendogli tintinnare le chiavi davanti. Poi gli ho sorriso, come dire, son fatto così, non ci puoi fare nulla, mentre accennavo ad andarmene. Mi ha guardato ancora una volta, mentre mi faceva passare, per tentare di farmi cambiare idea, con uno sguardo da marmocchio deluso, in parte rassegnato, a cui rimane come ultima drastica soluzione, il mettersi a frignare.

Dai, gli ho detto, che fastidio vi da?


Ieri verso mezzogiorno sotto casa mia c’è stato un incidente.

Il sig. Berri, con la sua motoretta, ha saltato l’ennesimo stop e ha tirato sotto una bambinetta in bici. Non so se è morta.

Mia madre mi aveva già messo a conoscenza di tali scarse doti di autista, – quello è un pericolo pubblico, sulla strada  – e di altre faccende più dubbie – mi chiedo dove andrà tutte le mattine alle quattro e quaranta con quella moto – riguardanti il Sig. Berri. Non le avevo chiesto in effetti, se ci fossero novità sulla sua passione per l’editoria vietata ai minori.

Quando sono arrivato, c’era una gran confusione visiva: vari gruppi di curiosi, del personale medico, gli sbirri. Il silenzio invece, era il solito, quello delle dodici e dieci. Meno del solito, ecco, c’era forse il tintinnio delle posate sopra i piatti. Per il resto, bonaccia acustica. I vecchi facevano i vecchi, sguardo basso, mani dietro la schiena e oscillazione paranoide. Le donne facevano le donne. Non riuscivano a stare zitte come al solito. Si mormoravano da bocca ad orecchio, frasi piene di esse fischianti fra denti e gengive. I lampeggianti blu, dal canto loro, lottavano storni e demoralizzati contro il sole a picco di luglio.

La bici della Barbie, rosa e bianca ad eccezione del cestello in vimini, rosso, stava adesso appoggiata contro il becco della Apecar, storta e attorcigliata quasi artisticamente. Qualcuno aveva sparso sull’asfalto della segatura, per asciugare del liquido che mi pareva troppo colorato per essere olio motore. La madre della bambina era stata fatta sedere sul gradino esterno di casa mia e due operatrici se ne stavano prendendo cura accarezzandole alternativamente, l’una la testa, l’altra il dorso dell’avambraccio, tenendole le mani, per tranquillizzarla.

Sembrava che tutti stessero aspettando qualcuno, o qualcosa, un evento riparatore o più semplicemente un rompete le righe. Ma sembrava esserci un ritardo generale, un rischio incombente di fecondazione. Io aspettavo semplicemente di poter entrare in casa, dato che mi sembrava scortese far spostare quelle persone, per un bisogno seppur primario, come mangiare. Così ho aspettato, pensando a qualcosa, che non poteva essere niente, perché il niente si sa, è un po’ anche il tutto, ed ad entrambi, comunque, riesce benissimo di riempirti la testa. E’ probabile pensassi a qualcosa da scrivere, qualcosa di triste, risaputo com’è che le arie funeste finiscono per renderti melanconico, anche se hai poco da centrarci, tu, nello specifico caso.

Pensavo così, finché ad un certo punto è arrivato un terzo operatore che si è accovacciato davanti al mio ingresso dove stavano le colleghe e la madre. Ha sussurrato qualcosa e allora la madre è saltata su in piedi e si è divincolata da quelli che la volevano calmare e ha iniziato a urlare, lo ammazzo, lo ammazzo.

Sola, in mezzo al piazzaletto, imprecava e agitava i pugni contro qualcosa a mezz’aria, qualcosa che poteva essere un misto di orizzonte vicino, di case e facce, di parti di cielo e acciotolato, ma forse era semplicemente qualcosa d’altro, il Sig. Berri che nessuno sapeva dove fosse finito, lei e i suoi rimorsi di madre distratta, o chissà che altro. Il brusio è aumentato all’improvviso ma così come s’era alzato in fretta quel ronzio s’è disperso e con lui tutta la gente, finché son rimasto l’unico, li in piedi, davanti a casa mia, senza saper che fare, che ormai la fame m’era passata. Ho guardato davanti a me e sulla porta d’ingresso ho visto ancora attaccato il cartello che avevo messo durante l’inverno. Il cartello recitava “Attenzione la caduta della neve dal tetto, colpisce sopratutto i curiosi”.

4 Risposte a “DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI AMORE. (OLTRAGGIO A RAYMOND CARVER)”

  1. grande Mart anche te in una mitica short story alla Carver…verifico subito su anobii le megliori letture da fare al riguardo …mi sa che tra un po’ si chiude l’ombrellone e serviranno nuovi libri da leggere accanto alla stufa

    ari-salutammo

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