GARBO E FOGA.

 

 

Non ero mai stato un gran genio nell’intuire quando una ragazza fosse disponibile e pronta per un qualche scambio di saliva o altri fluidi corporei. Non che fossi del tutto fesso, intendiamoci. Su altri campi con le figliuole me la cavavo egregiamente. Senso della vita, teorie sociali ed evolutive, stratagemmi politici, sentimentalismo e barbarie, musica, films, cultura generale, attività ludiche, ristorazione, del sano cinismo. Ne avevo in zucca insomma, a sufficienza per non fare scena muta al primo e ai successivi appuntamenti. Ma di li al capire quando fosse l’ora della mia manona sull’interno coscia, la strada era lunga. E terribilmente in salita.

Non è per niente facile districarsi tra le varie espressioni di cui è capace una femmina. Distinguere la sottile variazione dei muscoli facciali quando si passa dalla fase “uhm interessante quel che dici” alla fase “ok, adesso però basta! Scopiamo!”. Per nulla facile.

Uno sbadiglio è molto chiaro, ad esempio. “Che voglia di andare a letto. Ma da sola.” Anche una sana risata non lascia dubbi. “Dio mi fai morire. Quando sarò giù di morale ti vedrò volentieri”. Ma quali sono i colori del vessillo del mucchio selvaggio, perdio? Su che torre viene innalzato? Il segnale di fumo per l’angolo del limone? Il codice cifrato per scassinare la cassaforte?

Infine, l’evidente insuccesso della strenua ricerca dentro la gestualità femminile, della luce verde di libero accesso, del fuoco artificiale che desse l’avvio alle danze, mi aveva convinto ad un cambio di strategia. Avrei pazientato. Avrei tentennato, meglio, mi sarei finto indifferente. Interessante ma indifferente. L’avrei portata al cedimento, sul filo della nevrosi, stancata, sfiancata, sconfitta. L’avrei insomma, costretta al primo passo. Solo allora, avrei avuto la certezza. La sua lingua vellutata fra i miei denti sarebbe stato il segnale inequivocabile.

Verde!

Fra egocentrismo e autolesionismo. Un aspirante solitario suicida.

Affidarsi alla propositività femminile, pur nell’era moderna e paritaria, è sconvolgere tutte le regole del cavalierato storico. Una donna si aspetta ancora di essere corteggiata, approcciata, inseguita, perpetrata come una causa civile, e infine, scopata con garbo e foga?

Garbo e Foga, un film di. E con.

Stavo con Vanessa quel pomeriggio tardo invernale su una panchina del parco. Un’altalena arrugginita sulla nostra sinistra. Il copertone che fungeva da sedile aveva il battistrada liscio. La struttura portante era verniciata di rosso e più di uno degli usufruenti ci aveva inciso i soliti aforismi con la chiave. Inter merda. Viva la fica. Goitom. Luca e Patrizia (ruggine).

Davanti a noi, una parete verticale, decisamente calcarea, ingrigita di smog e crepata di vertigini, ci si era fregata il sole da un buon quarto d’ora. C’ha la traiettoria bassa, in inverno, la nostra stella. Mai sufficientemente alto per essere utile, come un cross del vecchio Maldini. Tra la montagna e le punte dei nostri arti inferiori stava un fosso. E in fondo al fosso un rivo di acqua che per essere degno di tale menzione, supponevo, avrebbe dovuto almeno muoversi. Dissi a Vanessa: – Vedi un po’, sto rivo. E’ talmente quieto che è come se m’avessi portato al lago. Un lago largo un metro e lungo ics. Chissà se sfocia nel mare. Vanessa mi piaceva perché non si indignava per la mia ironia. Era l’ideale per noi, quel posto, stava poco lontano dal suo condominio e da altri condomini. E abbastanza vicino alla circonvallazione perché il tutto prendesse quell’atmosfera cinematografica di desolazione cittadina della domenica pomeriggio. Una domenica pomeriggio alla periferia della vita. Riposo divino. La digestione, le partite,  i cinquantenni che portano a spasso mogli dai vecchi cappotti. Un po’d’aria umida per tirar via da entrambi l’odore di naftalina. Nelle orecchie, le voci gracchianti delle radioline: – Scusa Ameri, scusa Ciotti, t’interrompo per segnalarvi che siete entrambi morti. Il tempo passa, lento o di fretta, perfettamente contrario a quel che desideri. Tutto il calcio minuto per minuto non mi interessava più: verso i trent’anni ero finito in fuorigioco e non ritenevo essenziale rientrare. Tenevo nell’orecchio sinistro la cuffia destra del mio lettore; un errore d’osservazione. Quella sinistra stava tra i capelli biondi di Vanessa e probabile finisse nel suo orecchio destro. Succedeva così che fra le nostre teste corresse un doppio filo nero intrecciato, sospeso a mo’ di ponte tibetano. Un cacchio di filo di rame con dentro degli impulsi audio che unisce le menti di un tizio e una tizia. La trovavo una scena molto romantica a saperla inquadrare bene e con una buona luce. Avevo sempre un sacco di idee artistiche per la testa, ma rimanevano tali. Guardando il petto di Vanessa che si gonfiava e poi si abbassava ritmicamente, ne avevo anche altre, di idee, altrettanto artistiche. Ma non le pensavo, perché dato che eravamo in collegamento audio, temevo che lei potesse captare quelle sconcerie che il mio cervello produceva. A Vanessa ci tenevo e non volevo passare per maiale finché non me lo avesse espressamente chiesto. Stavamo abbandonati su quella panchina di legno, resa umida e artritica da mesi particolarmente nevosi, per la terza o quarta domenica di fila. Scivolavamo, via via che le mezz’ore passavano, lentamente verso il basso. Come un deposito d’olio nuovamente verso il fondo della bottiglia. Al momento di rientrare, avevo regolarmente la schiena a pezzi e solo i talloni, piantati nel terreno molliccio di disgelo, evitavano che fossi finito, da tempo, lungo e disteso sopra le foglie in umido e le calvizie d’erba. A volte portavamo un libro. Così, per rifugio. Perché non si possono avere cose intelligenti da dire per ore. Succedeva che per le cinque e trenta, quando era l’ora di rientrare, ci trovassimo più vicini di quel che eravamo inizialmente. Una cosa come gomito contro gomito o ginocchio contro ginocchio. Era una sensazione piacevole per il calore che sembravano scambiarsi i corpi e per qualcosa d’altro, un’emozione, più difficile da esporre. Vanessa era meno alta di me e quindi la sua massa di capelli stava più o meno all’altezza della mia spalla. Alcuni vi ricadevano sopra. Aveva questo modo bizzarro di reclinare verso destra la testa quando ti parlava e pure adesso, nel non far niente. Non intravedevo verso cosa fosse diretto il suo sguardo in quei momenti. Ne se avesse gli occhi aperti. Avrebbe potuto anche piangere. Perché c’è da dirlo, a tratti si dialogava come nel buio del sonno, senza guardarsi, senza necessariamente sapere dove si fosse l’un l’altro. Si percepisce chiara la presenza, come un magnetismo, in queste occasioni. Ammetto che eravamo ben strani li su quella panchina, se qualcuno ci avesse prestato dell’attenzione. Ma soprattutto mi chiedo, entrambi chissà in attesa di cosa.

6 Risposte a “GARBO E FOGA.”

  1. uh madò mi hai fatto ricordare i tempi della scuola …quando mi disse mi aspetti che faccio una doccia? E io coglione risposi si si ti aspetto qui che intanto leggo il giornale…no dico, non si può eh

    come dire che il magnetismo attira anche il legno; scena magistrale mestro Mart, e non so perché, ma l’atmosfera mi fa pensare a un film di Moretti, Bianca credo fosse il titolo

    😉 salut Mart, oggi l’è dura con la nebbia, dentro e fuori

  2. Ma è così facile…usa l’olfatto, se ci riesci scopri la disponibilità immediatamente.

    Siamo dei mammiferi, gli estrogeni sono inconfondibili.

    Ma devi anche essere porco a sufficienza.

  3. scena appena vista al bar:

    il barista vede un ragazzino che gli porge un pacchetto di patatine che deve pagare e gli dice:

    “Cosa vuoi, Napoli?”

    il mio bar è meraviglioso

    pista

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