IMPARARSI ALLA VITA SIMULANDO GLI ORGASMI. O VICEVERSA?




Alle giornate d’autunno dovrebbero dare una qualche ora di vita in più. Fategli vedere la luce, a ‘sto cazzo di ottobre. Intubatelo, iperventilatelo, un massaggio cardiaco, una mano tra le gambe. O semplicemente fottete qualche ora a quella stronza dell’estate.

Io l’estate la odio. Supponente e arrogante nella sua stantia bellezza, una fama da bella troietta guadagnata ad andare coi ciechi. L’estate la puoi guardare una volta ogni dieci minuti ed è sempre uguale. Ferma ed invariabile, come un cartellone pubblicitario di un bel paio di mutande di pizzo. Aspetti, aspetti, ma non se le toglie mai.

Quei pomeriggi di fine ottobre li facevamo diventare sufficientemente lunghi, io e fulvio, solo perché uscivamo a cavallo di mezzogiorno. Un grosso sacrificio, saltare il pranzo.

Fulvio è il mio nuovo cane. Il primo per la verità. Lo scrivo con l’iniziale piccola perché mi hanno spiegato che i nomi di cane non seguono le stesse regole dei nomi propri di persona. Mezzogiorno invece, non è mica il nome del mio cavallo. I cavalli a me, mi incutono un certo timore, troppa stazza, troppa fisicità. Fulvio è piccoletto, un cane da caccia con le orecchie flosce; tiene sempre lo sguardo basso, non abbaia mai. Un cane che da l’idea di essere tristissimo o di fregarsene di tutto. O di non avere più un briciolo di speranza. Interpretazioni varie e discordanti certo: ma in nessuno di questi stati d’animo quasi umani, scovi un filo d’entusiasmo. E questo è l’importante. L’ultima cosa che avrei voluto era andarmene a spasso con un cane arrogante. In quel quartiere, chi non si poteva permettere un fuoristrada di grossa cilindrata, finiva per mostrare la sua coglionaggine portando al guinzaglio una di quelle belve dal muso truce che vanno tanto di moda. Pronti a saltarti alla gola per una mossa sbagliata, in quantità proporzionale a quella dei padroni.

A vederci risalire il viale, io e fulvio, non si sarebbe potuto dire chi dei due era più solo.

Io o il cane. Solo come un cane o solo come un uomo. La scelta, personalmente, mi avrebbe messo in imbarazzo.

Era una meraviglia, di quei giorni e a quelle ore, il viale che portava da casa, su e poi giù, sul lungo fiume. I parcheggi sui lati, erano praticamente deserti, macchine, non ne passavano. La doppia fila di alberi sui fianchi, dei faggi italiani, erano spogli a metà. Ma quel che di fogliame rimaneva appeso, ti dava finalmente, dopo mesi di attesa, una decisa idea del significato del termine – colore.

In autunno la traiettoria bassa del sole attraversa gli oggetti in orizzontale trapassando i costati con una spada di luce. Una ferita indolore, da parte a parte, dentro la quale puoi guardare e meravigliarti, dalla quale, il contenuto vitale, esce e fluttuando nell’aria e ti si deposita ai piedi. Tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre ci è dato raggiungere la massima vicinanza al senso estetico ed interiore di questa fottuta esistenza. Bell’idea, ma utopistica. Poco fruibile, grazie per l’impegno.

D’estate, io l’estate la odio, il sole ti sta sempre sopra la testa. Capita che non fai nemmeno ombra, tanto poco sei considerato. L’estate, con questa melassa di luce e calore che ti cola continuamente verticale sulla testa come una beffarda pisciata divina, finisci per scioglierti come un ghiacciolo lungo la spina dorsale. Un bastoncino di ossa fra le mani con la scritta  – algido – . Algido, glaciale, freddo. Distante. L’estate è distante, ecco. Distante dalla realtà e creatrice di distanze. L’estate è ingannevole nella sua mancanza di varietà, nel suo essere dannatamente facile, alla portata e nel bisogno di tutti.

Con fulvio risalivamo il viale caracollando come due ubriachi in centro strada. Eravamo ebbri di demotivazioni e arrendevolezza, più che altro. Mancanti di combattività. Mi chiedevo, immaginandomi un’enorme sfera che d’improvviso si fosse messa a rotolare lungo la discesa, se mai ci saremmo scansati o se più semplicemente, avremmo optato per farci investire in pieno. Strano quanto poco te ne importi della sopravvivenza quando del semplice sopravvivere, ne hai piene le tasche. Fulvio mi seguiva qualche passo dietro, fiutando l’asfalto con insistenza, come un cane da tartufi in mezzo ad un bosco. Se mi fermavo improvvisamente, capitava che per la concentrazione e lo sguardo a terra, finisse per schiantarsi contro le mie gambe. Era uno scherzo che di tanto in tanto gli tiravo, così per mantenere l’allegria nella coppia. Lui non sembrava prendersela per cotanta goliardia. Si risistemava il muso con una passata di zampa e appena ripartivo, di nuovo dietro, fesso come prima. Un ridere.

Carlotta, la mia ultima fidanzata, sarebbe stata contenta del mio essere così gioviale.

Si lamentava spesso della mia negatività esistenziale, delle continue perturbazioni in transito nella mia psiche. Proprio così le chiamava. Quando trovava che fossi eccessivamente silenzioso, si avvicinava, scrutava dentro al mio orecchio e poi annunciava: altra perturbazione in arrivo da ovest. Dannata pioggia!

Lei da parte sua era così leggera che per i mesi che ci frequentammo, mi sembrò di andare per feste di paese mano nella mano con un palloncino gonfiato con l’elio. Ma di quelli belli, quelli con la sagoma di Minnie o Paperina. Non ci stavo particolarmente male, frequentare un opposto ti consente di trovare una quota di viaggio a mezza altezza, alquanto salutare. Eviti d’incespicare negli ostacoli posti sul terreno, ma ti entra tanto di quel vento in testa dalle narici, da mandarti a farfalle le più semplici idee. Non riuscivo a fingere a lungo. Reggevo il suo gioco finché rimanevamo nell’uno contro uno.  Ma lei insisteva nel farmi frequentare le sue conoscenze. Dei veri idioti. Mi domandavo come si potesse essere così mansuetamente ignari, così spudoratamente entusiasti.

Per quanto dura, la realtà non finisce mai per essere insopportabile al pari di un overdose di irrealtà.

Gli amici di Carlotta vivevano in un mondo di favole, morbido come un peluches, plastico e nocivo come un giocattolo cinese. Quando tornavo a casa dopo queste mortali serate, correvo allo specchio per accertare di non essermi trasformato in un figurante in gommapiuma del luna park. Carlotta mi sorprendeva disperato a tastarmi la faccia, le braccia, la pancia, a contarmi i battiti.

Con che frequenza batte il cuore di un topo adulto? le chiedevo.

Pippo, che razza di animale è?

Carlotta finì per indignarsi, offendersi, odiarmi, per la scarsa stima che nutrivo nei confronti del suo mondo.

Non ci riesco , le dicevo.  Non ci riesco, eppure lo vorrei, per quanto sarebbe tutto più semplice. La tenevo stretta mentre le parlavo, la sollevavo per i fianchi  portandola all’altezza dei miei occhi con una facilità irrisoria, sconcertante.

Nonostante mi sforzassi, continuavo ad essere allergico a qualsiasi tipo di costume sintetico.

Mi arresi infine e ripresi a dedicarmi alle perturbazioni pre autunnali, che nel frattempo, si addensavano sempre più numerose da ovest. Siamo nati con l’impermeabile, abilitati per prendere il maltempo, l’acqua a secchiate e il fango denso, sotto gli stivali.

Carlotta mi ha lasciato infine qualche settimana fa. Il suo nuovo ragazzo si occupa delle pubbliche relazioni in una discoteca del centro. E’ un tizio belloccio come se ne vedono tanti, indossa un costume standard da sabato sera, ma per tutta la settimana. Là dentro, mi dico, deve fare un caldo – estivo. Sudo freddo, al solo pensarci.

Lungo i marciapiedi del viale, nei pressi degli ingressi dei villini, in questi giorni, c’è un gran fermento. Capifamiglia sovrappeso e casalinghe sciupate sono impegnati nella consueta battaglia contro le foglie cadute. Ramazzano, spazzano, accumulano, soccombono ai mulinelli, imprecano contro le bizze del vento, sembrano arrendersi, ricominciano, maledicono la vana battaglia. Scoppiano in lacrime o rientrano in casa soddisfatti per la temporanea vittoria. Ce n’è un bello strato di foglie, e io e fulvio ci divertiamo a strascicarci le estremità come nella neve fresca. Con la differenza che non ti si gelano i piedi e le foglie scricchiolano come patatine, poco fresche, quasi andate a male. In taluni tratti lo strato è così spesso che di fulvio non emergono che la sommità della testa e parte delle orecchie. L’altro giorno è finito contro la base di uno degli alberi. Inizio a chiedermi se non sia anche un po’ orbo, sto cane.

Le foglie, ci penso mentre ne percepisco appena la presenza attorno alle caviglie, le foglie si che son leggere. Sarà che son morte.

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