INPORIO ARMANI JEANS.




Il primo tentativo di lasciare il centro commerciale me lo accollo senza timore. Paziente e fiducioso, non fosse altro che per la copia de Il Giocatore di Dostoevskij che ho appena acquistato. All’arrivo ho parcheggiato nel punto più estremo del garage interrato,  – l’ultimo posto disponibile – esattamente dove uno sfiato invertito, irradia perennemente un sospetto olezzo di olio per frittura, veramente esausto. La fila di veicoli accesi e fermi davanti a me è una costellazione di doppie stelle rosse accoppiate, che si dirama sinuosa in un labirinto di parcheggi ordinati e incroci pericolosi, dal mio cofano alle estremità di una galassia ignota. Prigioniero di una nebulosa di malsani gas di scarico e bagagliai carichi. I primi cretini hanno già iniziato a suonare. Riconosco il pezzo: la sinfonia del clacson e del coglione.

Il posto macchina che ho abbandonato giace vuoto pochi metri dietro di me. Quando mi accorgo che il romanzo che mi avrebbe dovuto tener compagnia durante la coda è stampato in caratteri troppo leggeri per il mio astigmatismo, è troppo tardi per fare dietro-front: un tizio, nell’enfasi della fuga, mi sta attaccato al culo, fedele come la coda al cane. Nei successivi quindici minuti, stoicamente, riesco a leggere circa otto righe, ma a percorrere nessun metro. Penso di ammazzare il tempo mandando qualche comunicazione di scopo ad un’amica, ma non me ne sovviene nessuna: nessuna amica, nessuno scopo, lo dice anche quel brizzolato di George Clooney. Inizio a preoccuparmi. Fuori da questo ingorgo non mi attendono che una serata solitaria, una pizza ed un film: c’è sempre tempo per morire da soli, convengo con me stesso, un nuovo suicidio di massa ai piani superiori, potrebbe dirsi preferibile.

Altri infiniti minuti dopo, non più lontano di dieci metri da dove ero partito, riesco a riparcheggiare il mio sudatissimo e spossato veicolo. L’atmosfera nel garage è un tantino elettrica. Scavalco qualche cofano e me la batto, prima che inizino a volare le prime pallottole.

Fare la fila per uscire non è una cosa molto comune nella vita.

Siamo così aggrappati all’inutile pellaccia che finiamo per diventare possessivi e millantatori di proprietà anche nei confronti degli altri, anche nei confronti di chi ne ha veramente piene le tasche e avrebbe tutti i diritti per andarsene.

All’interno tutto è così bianco e luminoso che pare abbia appena nevicato dentro un negozio di lampadari in cristallo. Ma l’aria è bollente di riscaldamento centralizzato e corpi struscianti, pesante di ascelle surriscaldate, intestini appesantiti e profumi d’annata. Lungo i soffitti nubi temporalesche si accumulano e montano, cariche di tensioni, stress, palpitazioni, ansie, orgasmi commerciali, bestemmie e sfinimenti. Cariche statiche negative serpeggiano a zig zag lungo i corridoi. Il tutto mi sembra pronto per un autocombustione o un orgia assassina.

Ad una delle tante casse un bambino di non più di otto anni, con dei gesti straordinariamente teatrali e a parti assolutamente invertite, urla nei confronti del padre – reo di aver saldato il conto senza il suo giocattolo – ma dove ce l’hai la testa! ma dove ce l’hai la testa!

Il padre che ha la consistenza gelatinosa di uno prossimo alla lapidazione, assolutamente smarrito, si guarda in giro, in cerca di una qualche assistenza psicologica, di conforto, di assoluzione. Ma i pollici sono tutti rivolti verso il basso. La moglie anche l’indice. Per un attimo temo finisca per pisciarsi nei pantaloni per il dramma personale in corso. Ma poi tutto riprende la sua rutine. La famiglia imperfetta viene inghiottita da altre saghe famigliari, da altre coppie, da amanti clandestini, da gruppi di lolite alle ultime ore di verginità. Baby gang in crisi ormonale, poliziotti della security, single solitari, vecchi abbandonati, mignotte in libera uscita e ricchioni a caccia di attivi.

Diversamente da altre giornate, mi rendo conto che le facce sono meno note del solito, che i barbari invasori arrivano da tutto il continente del nulla, dalla ciambella del niente che sta attorno a questo buco di occupazione domenicale. La forbice si sta ampliando, il target si diversifica, lievitando. Il numero dei  risucchiati è in costante aumento. Mi chiedo se il mondo fuori, abbia finito le alternative o se sia l’abilità di bocca del commercio, ad essere irresistibile. I negozi, taluni davvero inutilizzabili, sono più pieni del solito. Anche i ciondoli, tirano quest’oggi. Mi viene il dubbio che la  tanto declamata recessione sia stata intesa come diritto di recesso dalle ristrettezze economiche. O forse, e non posso che essere comprensivo, è sempre meglio morire felici. Ci sarebbero, sicuramente, metodi migliori per esserlo, ma questo è così a mano e multifunzionale.

Puoi comprarti una felpa se hai freddo, un completino intimo se hai caldo, andare dal parrucchiere, dall’ottico per una controllatina alla vista, leggere il tuo autore preferito mentre lecchi un gelato, farti una partita ai videogames, prenderti una pizza mentre acquisti una nuova automobile, incontrare la tua vecchia fiamma, farvi una foto e svilupparla, regalarle dei fiori, prenotarvi una vacanza, cambiare il telefono cellulare mentre ti guardi i goal della domenica, mandare tua moglie al centro estetico, i bambini sulle giostre, passare in erboristeria per una pomata contro l’impotenza, andare finalmente a pisciare, trovare le indicazioni per un pompino fatto bene proprio davanti ai tuoi occhi.

Ciao, sono Gianfranco, trentatre anni, passivo, peloso.

Qui dentro la vita è semplice, la vita è bella. Moccia è al numero uno dei libri più venduti.

Di tanto in tanto disegno un oblò sulle vetrate appannate e mi affaccio sull’esterno per controllare lo stato della coda. Le luminarie di natale che rivestono l’intero edificio, proiettano un’unica luce bianca glaciale che riverbera nella notte. Con tutta quest’ energia gettata alle ortiche, si potrebbero far funzionare tutti i phon d’Africa, per dire. Ma d’altronde in Africa i capelli se li asciugano al sole: hanno tempo per pazientare mentre muoiono di fame. Moralismi. Sto alla deriva sul Titanic, quel bagliore luminoso verso l’orizzonte è un enorme ghiacciolo al limone con il quale presto, entreremo in rotta di collisione. Allucinazioni. Devo trascinarmi ancora.  Mi sento come uno con il post sbronza rinchiuso dentro un enoteca: tocca continuare. Entro ed esco da tutti i negozi non equivoci, evito i negozi di intimo solo per una questione di erezioni non smaltite.

Ci sono due negozi gestiti da cinesi, l’uno a fianco dell’altro, che hanno da poco rilevato, fallimentari iniziative commerciali locali. Sono stipati all’inverosimile, di mercanzie, e disperati. C’è un odore persistente di sostanza plastica che toglie quasi il fiato. Strizzo le chiappe ad una cliente dell’est che emette un gnic gnic tipico dei pupazzetti che spremevo da bambino. Sembra di stare in uno di quei castelli di gomma gonfiabili nei quali alle feste di paese, i genitori abbandonano i figli. Non ci si può ammaccare in un negozio come questo: la sensazione è quella di un ambiente antiurto, irreale, una colata di riciclati in via di raffreddamento, ancora lavorabile a mano. Sui tumori non garantiamo. I disperati sono per lo più stranieri. C’è qualche occidentale sparuto che si dedica alle canne da pesca, ai binocoli, alle stazioni meteo. Il vestiario è roba per forestieri, gente che non conosce ancora i dettagli della lingua ricca. I cinesi debbono avere una concezione molto giovane e troppo casual del nostro modo di vestire. O meglio. Chissà che razza di abbigliamento propinano i nostri esportatori di mode a oriente. Non c’è un indumento esteticamente salvabile. Tutto è serigrafato con scritte, loghi, simboli, luccicanti ed in rilievo, enormi abonormi, lampeggianti. La sensazione potrebbe essere quella di vestire un’insegna luminosa.

Io voglio essere il meno visibile possibile.

Le felpe Inporio Armani Jeans e Bolce e Gaddana però mi stuzzicano molto. Non fosse altro che per il senso di deregulation e demodè che il vestirle comporterebbe. Ma il solo contatto con la pelle mi provoca un prurito sospetto, reale, che mi consiglia di lasciar perdere le idee sovversive. All’uscita, il titolare, un giovanotto molto occidentalizzato e credo, il padre vecchissimo o il nonno, fungono anche da allarme antifurto. Un occhiata gentile mentre simulano di ordinare, un cesto pieno di guanti coloratissimi per bambini. Mi stupisce non abbiano un qualche ritrovato tecnologico molto più moderno dei nostri attuali. Qualcosa come gli occhiali a raggi infrarossi dell’Intrepido, ma funzionanti. Forse si fidano. Forse sono pronti ad atterrarmi con una indifendibile mossa d’arte marziale.

Sollido e me ne vado.

I corridoi si stanno desertificando: è l’ora della cena. Spendere, mangiare e poi magari scopare. La domenica perfetta.

I vecchi amici a loro volta mi propongono l’ennesima pizza domenicale. Una telefonata scontrosa, un gesto di grazia ad un vile traditore. Le età dell’abbandono si avvicinano. Denoto stizza, impazienza e resti di generosità nelle parole. La fidanzata sente puzza di bruciato e non conosce il numero dei pompieri. Tenersi aggrappati con vecchie unghie laccate consumate. Masticare in compagnia, non parlare con la bocca, ne piena, ne vuota. Ho già dato loro le mie due precedenti serate e non credo di riuscirne a sopportarne una terza. In periodo di recessione si inizia a fare a meno delle cose futili. Sto diventando raffinato o forse ho semplicemente finito la pazienza. Le diversità sono palesi, i concetti in bianco e nero, sono vetusti e puzzano di armadi e naftalina. Meglio una sana solitudine. Sa del tuo odore, del tuo dopobarba. Checazzo. Il paese o la cina. Certe domeniche sono proprio senza ritegno.

5 Risposte a “INPORIO ARMANI JEANS.”

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