JONNY PASTICCA e l’amico NERO.

Sdraiato sul letto perennemente disfatto, forse l’unica cosa che conosceva più sfatta di lui, la faccia rivolta in alto, verso l’intonaco ammuffito del soffitto, ormai quasi completamente scrostato dall’umidità.

I polmoni che, dopo la corsa, chiedevano ossigeno, gonfiando e ritraendo la cassa toracica sotto la maglietta dei Fishbone, al ritmo affannoso del respiro e dei battiti cardiaci.

:-Porcaputtana Nero, a momenti ci beccavano questa volta. Questi sbirri stanno diventando sempre più atletici. Quel pelatone di un negro correva più veloce del miglior Linford Christie.

:-Cristo Santo. Mulinava le gambe come se fosse sul rettilineo della staffetta quattro per cento. Solo che al posto del testimone aveva un cannone da 12 mm.

:-Che strizza mi sono preso. Beati i tempi delle pattuglie notturne di piedipiatti obesi e lavativi, che ti inseguivano con la loro divisa macchiata del ketchup delle tavole calde fino al primo vicolo, e poi ti lasciavano andare, piegati in due dalla fatica, dal fiato corto e dal sudore. Ora invece ti sguinzagliano dietro questi levrieri dalla fibra veloce, questi pitbull affamati di sangue.

:-Ehi Nero, cazzo, ma mi ascolti?

Erano circa le due di notte e dalla finestra aperta della monostanza di Jonny, su al tredicesimo piano del casermone dormitorio in Bordcage Road, arrivavano solo le alitate di fritto della rosticceria giù sull’ingresso, il groviglio di consonanti della parlata dei ragazzi turchi riuniti in crocchio fuori da Fasihr, e le luci rotanti di quel fottuto  London Eye, la ruota panoramica dritta all’orizzonte sul Tamigi.

:-Nero, ehi Nero!

Quando non c’era luce, Nero finiva sempre per sparire. Dove diavolo si cacciava poi, così, senza motivo e senza spiegazioni.

:-Sei il solito cacasotto, sei! CA-GA-SOT-TO, CA-GA-SOT-TO!

:-D’ora in poi è così che ti chiamerò.

:-Dai esci stronzetto. Guarda che sono sicuro di averli seminati. E poi senza un mandato, qui non possono entrare. A patto che abbiano il coraggio di entrare. Dal piano terra a qui, c’è la miglior feccia di tutta Londra, stipata e attenta dietro gli spioncini delle porte. E Dio solo sa, quanti di quegli occhi, non hanno almeno un buon motivo valido per odiare gli sbirri.

:-Credimi, se io fossi un poliziotto, e uno qualsiasi dei miei superiori mi obbligasse ad entrare qua dentro, mi sfilerei il distintivo e me la darei a gambe levate. Meglio disoccupato che morto.

Il sottotenente Matthew Tomclacey, ritornando al punto di partenza, percorse a lunghi e frettolosi passi, gli ultimi metri che lo separavano dall’ingresso del Supalova House Club. Le luci intermittenti dei lampeggianti azzurri delle volanti, erano ancora accesi, e contrastavano in intensità, con il pulsare rosa fashion dell’insegna del locale.

Le macchine, parcheggiate alla bell’ e meglio sul marciapiede, erano diventate meta della curiosità e della sfacciataggine di parte degli avventori del locale. I più arditi stavano fumando, chiacchierando e scherzando allegramente, seduti o appoggiati sui cofani delle vetture.

I colleghi di pattuglia dovevano ancora rientrare.

Togliendosi il berretto e passando il dorso della mano sulla fronte per asciugare il sudore, il sottotenente Tomclacey riconobbe il suo superiore, il Tenente Capo Berry Mcfarley, mischiato fra la folla, nell’atto di rintracciare qualcuno disposto a sputare qualche informazione utile.

Lo raggiunse.

:-Allora?

Matthew scosse la testa.

:-Niente da fare. Quando ci siamo infilati nel vicolo cieco del quartiere cinese qua dietro, ho pensato: E’ fatta.

Ce l’avevo a tiro. Ma arrivati al capolinea, il bastardo è sgattaiolato su per un muro liscio di quattro metri come il più lesto dei gatti. Neanche il tempo di caricare l’arma che era già dall’altra parte.

:-Porchissima di quella troia. Il ragazzo avrà anche il cervello in poltiglia, ma fisicamente è bello integro. Se continuiamo ad inseguirlo a piedi, questo continuerà a farci fessi.

:-Dobbiamo beccarlo quando è all’interno a spacciare le sue cazzo di pastiglie malate.

:-Intrufolarci tra il pubblico e poi coglierlo in fragrante.

:-Bell’idea Tenente, ma forse dimentica che il più vecchio dei frequentatori del locale avrà si e no vent’anni. E il nostro agente più giovane, il suo collega Gullowen, ne ha fatti trenta ieri. Quello ci avvisterebbe subito e finirebbe per non abboccare, standosene buono e pulito per tutta la notte.

:-Ordine dell’ispettore Closet. Dobbiamo prenderlo vivo, e soprattutto con la roba sporca addosso. Altrimenti sono tutte chiacchiere e zero prove.

:-A proposito di ispettore.

:-Dove si sarà cacciato quel diavolo di Blood? Mi aveva promesso che sarebbe stato presente alla missione, dato che eravamo tutti convinti di beccarlo.

:-Bhe se permette Tenente Capo, ci sono due posti dove a quest’ora, può andare a cercare l’Ispettore Closet. O tra le cosce di qualche mignotta a ore, o appoggiato a qualche bancone di pub.

:-Sé, bell’aiuto. Hai idea di quante mignotte e quanti pub ci sono in tutta Londra mio caro Tomclacey? Raccogli le tuo cose e fila a casa che domani mattina sei di nuovo di turno.

Frederic Lefevre era stato un ragazzetto francese, tutto sommato nella norma, fino a qualche tempo prima. Prima di salire su quel treno. Prima di diventare Jonny Pasticca. Abitare dalle parti di Calais, sulle fredde e umide coste affacciate verso l’Inghilterra, era quello che si poteva definire, l’antitesi alla gioia di vivere. Ma nell’attesa degli anni dell’indipendenza economica, o meglio dell’indipendenza assoluta, quindi anche fisica dai genitori, dividersi tra gli allenamenti per l’atletica e i pomeriggi lavorativi nella farmacia di famiglia, fu l’unico metodo per sopravvivere alla sua gioventù. Giornate lunghe e desolate, come le spiagge e ricordi della costa di Normandia.

Poi arrivò la galleria sotto la Manica.

I treni iniziarono a sferragliare fuori da casa sua.

Ricordava i primi giorni, quando affacciato alla finestra, annusava nello spostamento d’aria, l’odore metropolitano della City. Immaginava, nell’orgia confusa di colori in movimento, la vita cosmopolita londinese.

E credeva che lì, avrebbe finalmente un giorno, iniziato a vivere realmente.

Ne fu ulteriormente, definitivamente, convinto, quando quel giorno d’estate, dopo chilometri di immersione tra le viscere della terra e dell’ oceano, sbucò dall’altra parte.

Il chiarore del giorno, che si avvicinava in fondo al tunnel, era come la luce che non ricordava di aver visto, il giorno in cui, diciotto anni prima, era venuto al mondo, sbuffando come un locomotore, dalle profondità dell’utero della madre.

No. Non aveva mai provato alcun tipo di droghe nella sua vita francese.

Figuriamoci.

Con un padre farmacista già a dieci anni, era un enciclopedia vivente di tutti gli effetti indesiderati e collaterali di ogni composto farmaceutico.

E volente o nolente, finisci per tenertene alla larga, anche per pura assuefazione mentale.

Solo per non sentirle nominare una volta ancora.

A pensarci non si era mai preso nemmeno una gran sbronza.

Ma nella vera vita che con tanto ardore era venuto a cercare, questi incontri erano stati inseriti in scaletta. 

A sua insaputa. E vi ci si sarebbe imbattuto, prima di quanto potesse immaginare.

Nell’introduzione alle varie esperienze esistenziali, non obbligatoriamente necessarie, ma per lo più inevitabili, alcool, droghe, sesso, che ciclicamente bussano alla porta di ognuno, è consuetudine dei più, avere un mentore introduttore. Una guida esperta.

Uno pratico del settore.

E Frederich, ebbe la sfortuna, la malaugurata sorte, di imbattersi nella persona giusta, ma nel momento e nel posto sbagliato.

Per spiegarci.

Martin Esseling, era il suo collega lavapiatti.

Olandese. Aveva percorso, con anticipo di un annetto circa, il suo stesso percorso esistenziale.

Abbandonato il paesello, la famiglia, consuetudini e inutili certezze.

Per un iniezione di vita.

E l’aveva trovata. Niente di qualità sopraffina. Ma la giusta dose giornaliera, che rispetto a prima, figurava però come un vero sballo.

Martin gli aveva dato una grossa mano.

Dividevano lavoro e casa. E tutto il resto che avanzava. La sera e la notte quindi.

Frederich gliene era grato.

E si fidava ciecamente. D’altronde si rivedeva in lui, come guardandosi allo specchio.

Non fece storie o problemi, quando le sbronze, cominciarono a diventare pesanti ed insistenti.

Bhe, gli vomitò un paio di volte addosso. Ma quelli erano solo problemi tecnici.

Martin gli dava delle gran pacche sulle spalle, e gli riempiva il bicchiere.

A pensarci, non si fece nessun scrupolo, anche quella sera, che gli passò la prima pastiglia.Il funghetto stampato sopra era simpatico.

 

To be continued….

 

 

15 Risposte a “JONNY PASTICCA e l’amico NERO.”

  1. un tipo ieri è volato giù dal tavolo dove ballava, si è schiantato al suolo e dopo due secondi si è rimesso a ballare come se niente fosse… è stupefacente cosa può fare l’alcool! Comunque stamattina niente martello pneumatico… solo un molesto torcicollo, ma credo sia solo colpa dell’arietta che entrava dalla finestra aperta in casa mia… anche se Chief oggi al lavoro mi cantava “Non ho l’etààààààà, non ho l’etàààà…” chissà che voleva dire, mica l’ho capito!

    ps: il post lo leggerò stanotte, che ora non ho tanto tempo… Ciao!

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