LA CADUTA.




Le cadute sono sempre meno morbide più si va avanti con l’età. La posso capire Berloni, la posso capire.

Il professore ruppe con queste scarne parole il silenzio che regnava nella stanza da un buon minuto. Si era appena finito di parlare di non so quale autore francese ed entrambi stavamo rovistando nella testa in cerca di nuovi argomenti. Per la verità quella sera io avevo tutt’altri pensieri in circolo e non stavo facendo altro che osservare i numerosi volti scomposti del professore che si formavano ai miei occhi attraverso il fondo del bicchiere. Ne avevo svuotati parecchi sin li, e l’ultimo me lo stavo ancora rigirando fra le dita, poco sopra il naso.

Dal professore bevevamo distillato d’uva e nient’altro, in piccoli bicchierini da amaro. L’arredo in quella stanza, così come in tutta la casa, era così scarno e datato, la luce così fioca, che agli occhi di un osservatore esterno saremmo tranquillamente potuti apparire come due personaggi di un romanzo russo. Avevamo la grappa al posto della wodka e forse l’unico particolare stonato, poteva essere il mio vestiario da trentenne che arranca al passo delle mode. Il professore si ostinava, non credo gli fosse veramente necessario, ad essere parsimonioso. Viveva in quella casa, da solo, da quasi cinquant’anni. Mi venne da pensare che forse, per una sorta di adeguamento, si finisce per essere spilorci in quantità pari a quanto la vita lo è stata con noi. Ma non credo sia del tutto corretto. Il professore aveva una certa età, verso gli ottanta suppongo, e quella generazione è  senz’ombra di dubbio, l’ultima abituata alla povertà, alla ristrettezza, alla sopportazione.

Il professore teneva questi corsi serali credo più che altro per crearsi compagnia. Il prezzo delle lezioni era irrisorio, gli iscritti, radi, gente del quartiere. Qualche ripetente delle medie, qualche signora straniera, qualche appassionato di letteratura che trovava nel professore un buon confronto. Per quanto mi riguarda, ero semplicemente il vicino di pianerottolo bisognoso di ammazzare qualche ora.

Eravamo due cani, due cani soli ma poco sciolti. Due cani della stessa razza o di una molto simile: per quanto riguarda la differenza d’età diventava quasi irrisoria, per quanto mi sentivo vecchio di quei tempi.

Quella mattina erano in modo chiaro e deciso finiti i miei sogni di gloria, l’appropriazione debita o indebita che speravo di perpetrare ai danni di Lucilla. Le sue attenzioni, la sua disponibilità, il suo tempo, più a margine, il suo corpo. Era la prima volta che mi dedicavo con tanta attenzione ad una donna, pur cercando di non scadere nel maniacale, pur alternando brevi entusiasmi a più facili demoralizzazioni. Un intero autunno direi. Quel giorno tutto andò come un pessimista avrebbe detto dovesse andare. Rapido veloce sintetico, un intervento a cuore aperto in assenza di anestetico. Dolore breve ed intenso, effetto assolutamente duraturo. Con l’accumularsi dei risultati sul ciglio della strada, palesi strascichi di battaglie troppo spesso perse, finisci nella vita per diffidare degli ottimisti e immaginare, già in partenza, dove andrai a concludere. Se non ci fossero le illusioni ad incitarti qua e la ai lati del percorso, false ma sportive come il tifoso dell’ultimo in classifica, ci sarebbe da chiedersi quanto valga la pena anche il solo imbarcarsi in simili avventure.

Il professore era al corrente di tutto quanto agitava i miei sonni e i mie giorni dato che gli portavo, per averne un giudizio, gli scritti con i quali mi dilettavo. Vari tentativi da scrittore, ambizione verso l’emersione. Attività, la scrittura, nella quale, come in altre, eccellevo ma mai abbastanza per fare il balzo necessario a cavarmi fuori dal pantano. Era una costante della mia sin li anonima esistenza: ero dotato di alcune qualità magari non del tutto comuni, ma di non sufficienti, stimolo, voglia od interesse, per sfruttarle fino in fondo. Più volte finivo col chiedermi, soprattutto quando divenivo conscio della mia piatta condizione, a che cosa fosse dovuto quest’essere restio, questa mancanza d’impegno e d’obiettivi. Non ne ho ancora trovata la risposta. Forse la soluzione sta proprio nel nostro essere così comunemente mortali.

Al professore quindi, davo in osservazione, più che gli svogliati tentativi di successo, queste silenziose confidenze. Non avevo un migliore amico col quale sfogarmi, uno abbastanza sensibile per delle comuni parole di conforto. Uno che stesse peggio di me e dal quale prendere sollievo, per confronto. Avevo il professore.

Il professore prendeva i mie fogli, li piegava a metà e li infilava nel cassetto del tavolo, tra forchette e coltelli. All’incontro successivo li tirava fuori, a volte con delle annotazioni sul fianco, a volte con dentro una briciola, con sopra un impronta di un pollice unto. Mi faceva alcune considerazioni di carattere grammaticale, altre di tipo logico. Ma il tutto durava poco. Più spesso toglieva un libro dalla pila che stava sul tavolo, lo apriva e mi diceva, leggi qua. Scorrevo, erano sempre dei passaggi magistrali. Da parte mia di tanto in tanto facevo la stessa cosa: mi portavo appresso il romanzo che tenevo sul comodino e lo aprivo al paragrafo che avevo evidenziato. Il professore sorrideva perché le sapeva praticamente sempre già tutte. Non so quanta roba potesse aver letto quel vecchio, non mi capacitavo di come potesse ricordarsi il tutto.

Le cadute sono sempre meno morbide più si va avanti con l’età, disse, quindi. Sarà che gli arti sono meno elastici nell’ammortizzare, sarà che il tempo per rialzarsi e ricominciare è di volta in volta sempre più breve. Sarà che trasportiamo via via un fardello sempre più pesante e il peso finisce per schiacciarci sempre più al suolo. Quando iniziamo a cadere e a faticare a rialzarci, significa l’esser giunti al lato opposto dell’infanzia. L’aver completato la parabola. La differenza tra il moccioso che muovendo i primi passi è a terra una volta si e una no, e lei, sta tutta nell’incoscienza. Il moccioso non sa assolutamente che cosa l’aspetta nel rialzarsi, lei lo sa sin troppo bene. Questa è la grossa fregatura Berloni. Senta. Questa sera lei ha proprio una pessima cera. Beva ancora qualcosa. Rimanga. Non se ne vorrà mica andare a spasso con quella faccia li, nevvero?

La cadenza nevvero mi ricordò un interloquire bonario, da prete. Un che di affettuoso, ma nulla di ingannevole, però.

Che cosa cercano le donne, chiesi, professore? Ero ubriaco e confidenziale, ormai.

A volte mi da l’impressione che cerchino un qualche dio, non so in che campo specializzato.

E noi siamo solo dei poveri cristi, no?

Esattamente, esattamente. Dei cristi in terra, si sa che fine fanno. Che cosa intende fare ora, Berloni?

Quando si è sconfitti, perdenti, si è sempre poco lucidi. Meglio starsene in silenzio all’angolo per un po’, a farsi passare la sbornia e la suonata che si è presa.

Può sempre passare qualche sera, le darò da leggere.

Porterò da bere. Le ho finito la bottiglia stasera.

3 Risposte a “LA CADUTA.”

  1. Le mie donnine ti lustrano gli occhi ? E loro stanno li proprio per questo. Per lustrarti gli occhi sai.

    Ecco, vedi. Sono le classificazioni, le catalogazioni che non amo molto. Il blog non è mai autobiografico davvero, come non è mai assoltuamente impersonale.

    Tu lo sai meglio di me.

    In ogni caso, il bicchiere andrebbe diviso. Bere da soli è segno di chiusura al mondo. Apriti, Sesamo !

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