L’AMORE AI TEMPI DELLA BUFERA.




Faceva un cazzo di freddo, alla mattina. Faceva un cazzo di freddo alla sera, durante il giorno non ero mai in casa, prendevo freddo altrove. Fino all’inverno precedente sopportavo i rigori con una certa non sciallanza, come direbbero i francesi bene.

Il freddo che ti sale lungo la schiena, così come il caldo che ti ritempra, sono delle preziose e gratuite alternative all’orgasmo. Delle sensazioni fisiche, molto più vantaggiose rispetto, che dire, ad un accoltellamento. Solo che il caldo, al pari dell’amplesso, comporta una variabile profusione di sudorazione. Un vero impiccio, per uno precisino quale sono. Col tempo mi ero abituato ad evitare entrambi. Arrivavo all’inverno bianchiccio e solitario, pronto a farmi finalmente abbracciare da gelide folate di tramontana, tremare come vecchio con l’alzheimer dentro una felpina di cotone. Grazie a quelle contrazioni involontarie che s’impossessavano di tutto il mio corpo, sentivo l’energia negativa scrollarmisi di dosso, defluire lentamente lungo le gambe e poi, espulsa attraverso le suole delle mie calzature estive.

Mi trovavo così, nuovo, rinato, mentre morivo di freddo.

Ma poi è arrivato questo nuovo anno. Le cose sono cambiate, alcune sono rimaste uguali.

L’estate è trascorsa senza che al solito mi preoccupassi di avere particolari contatti con quell’ammasso di magma bollente che attraversa frequente il nostro campo visivo. Ma il bianco della mia carnagione iniziava a trasmettermi una sensazione di non tonicità, preoccupante. Allo specchio mi colpivo con l’indice, affondando come dentro ad una bufala. Era chiaramente una bufala. Ero decisamente più in forma degli anni precedenti, ma la sensazione visiva era reale. Il bianco immacolato del sedere non risaltava ormai più per contrasto rispetto alla restante superficie. Mi ricordavo la pianura padana, eccezionalmente innevata, straordinariamente priva di chiaroscuri.

Differentemente mi ero preoccupato di procurarmi dei contatti con quell’ammasso di carne bollente che attraversa frequente il nostro campo visivo. La donna.

Le donne sono molto meglio del sole. Con le donne è molto meglio che da soli. Il bello delle donne era – non ci misi molto a scoprirlo – che avevano al contempo la capacità di scaldarti e gelarti. Il sangue, i sentimenti, la pelle. Iniziavo ad immaginare che con la presenza di una donna si sarebbe anche potuto fare a meno degli eventi atmosferici. Vivere in un ambiente asettico, eppure ricreare il naturale susseguirsi delle stagioni.

Delle stagioni emozionali: se fossi uno stupido poeta, delle stagioni del cuore.

Fu forse dovuto al fatto che detta stagione rimase differentemente da quanto mi augurassi, fissa sull’inverno, che quando arrivò settembre con qualche giornata gelida sopra la media, iniziai ad odiare il freddo. La temperatura in casa precipitava al pari del mio umore. Vi sarebbe stato il modo di riscaldare perlomeno il fisico semplicemente accendendo il riscaldamento. Ma sopportare quel gelo finì col sembrarmi una dimostrazione di forza e coraggio, seppur non capissi bene nei confronti di chi. Non poter più girare seminudo per casa come avevo sin lì sempre fatto, era ammettere la sconfitta, un primo segno del declino. Suppongo il declino preveda, in precedenza, il raggiungimento di un qualche apice. Passai i giorni stringendo i denti ed a tratti, in uno stato febbricitante. Avrei voluto che Svetlana fosse venuta da me una sera e forse i fatti sarebbero andati nella direzione verso la quale avevo spesso fantasticato. Ma la sola idea di doverle toglierle i vestiti e poi spingerla gentilmente tra le lenzuola mi faceva temere per la sua salute: si sarebbe presa un accidente.

Il gelo non è certo lo stato ideale quando si devono rispolverare gli istinti primordiali. E poi Svetlana era già fredda di suo. Algida, come la marca dei gelati, spesso assente, come il calore nelle giornate d’inverno. Era un impresa improba, Svetlana, la sua conquista, il solo rapportarsi. Era come dover arrivare nel centro di un laghetto ghiacciato, praticare il classico foro circolare, e poi inzupparci un braccio nel tentativo di portare a galla una qualche forma di vita. Un pittore romantico avrebbe dipinto l’estrazione di un cuore. Pulsante, vivo. Un qualche cristo, un fascio di luce a far capolino da una qualche nuvola. Io, molto diversamente, immaginavo un pesciolino rosso dentro una scena notturna di bianchi e blu. Minuscolo, guizzante nel palmo della mano.

All’alba del settimo giorno la temperatura iniziò lentamente a risalire. Le cime delle montagne che vedevo oltre i tetti dalla mia finestra, rimasero bianche fino a mezzogiorno, poi piegarono verso l’arancio quando fu ora di sera. Svetlana non mi aveva chiamato nemmeno quel giorno. Era ancora settembre, tutto sommato. Solo verso quell’ora mi resi conto che quella sensazione di tremore costante, era finalmente sparita. Osservai il mio riflesso leggero sul vetro della finestra: indossavo un paio di pantaloni corti e per il resto a torso nudo. Vidi che dalla strada una vecchia carica di borse della spesa, guardava verso l’alto, nella mia direzione, mentre rifiatava. Aveva uno scialle di lana blu avvolto lungo il collo che scendeva a triangolo lungo la schiena.

Lo reggo ancora bene, il freddo, pensai.

Una risposta a “L’AMORE AI TEMPI DELLA BUFERA.”

  1. la disciplina del corpo offre non trascurabili vantaggi ….un sarcastico Márquez in un romanticismo ‘congelato’ 😉 …ma i rigori dell’inverno non dovrebbero esaltare le castagnade i ‘maroni’ il mosto, l’odor dei vini, la polenta le …

    brrr… salutammo maestro Mart

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