PICCOLE VITE DI UNA DOMENICA DI FALSA PRIMAVERA

Mi sveglio, strano, senza più apparenti acciacchi influenzali.

Gola libera e affamata, naso stappato in perlustrazione come cane segugio, del profumino di arrosto e patate che scivola, assieme a un fascio di luce bianca, dalla fessura sotto la porta chiusa verso la cucina.

Fronte fresca e la parte di sonno abbondantemente soddisfatta. D’altronde con sommo rimpianto, non c’è stata la solitamente classica alba alcolica, ma un seratone televisivo semi-febbrile, sulle orme del prode Ulisse.

Nessun acciacco apparente alle ossa, arrugginite da ore interminabili di materasso o poltrona in vimini o sedia foderata o panca del tavolo da cucina o tavoletta del bagno.

Niente.

Solo muscoli intorpiditi dal sonno e quel dolorino lì, ormai abituale, alle reni.

Tipo effetto PP trattenuta per ore.

Ma questa volta, come altre, mi sono svegliato di buon ora, camminando sui talloni nudi sulle ceramiche ancora gelate, quando la casa era ancora silenziosa nella prima mattina e appena rischiarata dall’ultima notte, per farla zampillare rumorosa sul fondo tranquillo del laghetto in fondo al water, a increspare la mia immagine assonnata riflessa sulla superficie.

Quindi.

Quindi il dolorino lì, ho pensato, sono gli addominali che rimangono in tensione per via della posizione fetale raggomitolata, che durante la notte, ti viene un pò da se naturale.

Si ma se non fosse.

Forse giovane Mart stai diventando vecchio e ti ci occorrerebbe un tagliandino di tanto in tanto. Tipo un esame del sangue, una visita dal dentista. Un check up generale.

Di tanto in tanto.

Il vecchietto fuori, che ora tossisce in cucina al primo biscotto, che come sempre gli si è infilato di traverso, insegna.

Sano, robusto, temprato dal lavoro. Una roccia.

Poi quel mezzogiorno di tanti ferragosto fa.

Lo aspettavi impaziente sul prato della baita in montagna, per ficcarlo in porta e tirargli due rigori. :-Ufff, mamma, ma quando arriva papà?

Bè quel cazzo di ferragosto, a momenti ci lascia le penne. il tuo papà. Altro che rigori.

Così, dalla mattina alla sera. Mica ti preavvisano.

Le reni difettose e la pressione a duecento se non ci guardi, non le vedi.

Te ne se stato lì, nella canottiera e nei pantaloni corti, troppo larghi e ampi per le tue pelle e ossa, in mezzo al prato ad aspettare mentre il tuo portiere, così senza dire niente, si ritirava dall’attività.

Mica un incidentino di percorso. E’ no.

Adesso lo guardi e pensi che di rigori non ne prenderebbe manco uno, anche se a volte, facevi fatica a imprimere al tiro, sufficiente forza per arrivare fino alla porta.

Adesso, ammaccato com’è, vien buono come pubblico.

Silenzioso tra l’altro.

E allora a pensarci, si forse una controllatina meglio farsela dare.

Si, magari più avanti. Tanto adesso vado in palestra. L’attività fisica è sufficiente no?

Nel frattempo, per il dolorino, lo sfrego un po’. Sta gia passando.

Allungo il braccio sinistro verso l’alto tastando a tentoni. L’articolazione emette uno schiocco secco e poco lubrificato, da giunture arrugginite. Accendo lo stereo.

La luce azzurro elettrico del display e della spia rotonda con la lancetta oscillante del subwoofer, illuminano la camera di una luce fredda, sintetica, da sala operatoria di un astronave spaziale. Fortunatamente il raggio laser del telecomando è potente, così lo posso utilizzare da sotto il piumone e tenermi le braccia al caldo.

 

Come here, oh my star is fading
i swerve out of control
and if i, i waited and waited
gotta get out of this hole

come out, oh my star is fading
and i swerved out of control
and if i, i waited and waited
when will i get out of this hole?

Infilo i cuffioni protettivi sulle orecchie per isolarmi dai rumori esterni ed entrare in contatto fine, con la musica. Distinguo il picchiettare dei martelletti del pianoforte e il pizzicare dei polpastrelli sulle corde. Percepisco lo spostamento d’aria delle bacchette che picchiano lente i piatti e la pancia che si contrae, ai colpi della grancassa.

Le cuffie spesse mi costringono a stare perfettamente a faccia in su, senza piegarmi su un fianco, lungo disteso come un morto con le mani unite a conchiglia sopra il ventre. Spingo forte i piedi verso il basso e sento le gambe e la spina dorsale allungarsi a dismisura e stirarsi e scaricare le tossine ai lati.

time pushing you down, pushing you all around
sick on your side, sick to the grounds, sick to the starlight

come here, oh my star is fading
and i swerved into the life of it
and i know that i wasted and wasted
oh what a big mistake, i know

time is on your side, it’s on your side now
pushing you down onto the ground, but it’s no cause for concern

Questi giorni passati a casa con l’influenza non ho fatto altro che un gran sognare ad occhi aperti ed a occhi chiusi.

I sogni ad occhi chiusi non mi sono piaciuti affatto, perché per lo più indotti da tutte quelle porcherie di medicinali che ho preso per guarire. Erano sogni molto lunghi, a volte interrotti e poi ripresi durante la stessa notte.

Di quelle allucinazioni inutili di vita comune, che ti impegnano la mente e al risveglio di pesano sugli occhi, come una giornata di lavoro.

I sogni ad occhi aperti invece, me li sono gestiti da solo e quindi non mi posso lamentare degli inizi, ne della trama, ne del finale.

Se devo essere sincero sono stato parecchio monotematico nel pensare a strane situazioni di io che scendo, contattato dalla grande casa editrice, nella grande città del nord a fare lo scrittore e subito il successo immediato e tutta la serie delle ospitate promozionali ai talk show e le public relation nelle librerie e tutte quelle fantasticherie lì, compresi gli aperitivi della Milano da bere e le sere nei locali e le conoscenze importanti.

No. Non mi sono fatto mancare niente. Nemmeno un sacco di gnocche disponibili di contorno.

Ora invece più semplicemente, sto sognando la sera del nostro primo concerto da L&Bistrot.

Coldplay-night. Sulla canzone di chiusura, sugli ultimi accordi che si ripetono, sto pensando a una frase carina ad effetto per ringraziare il folto pubblico.

Nell’italiano imperfetto di una voce anglofona:-“Prima o poi capita nella vita di tutti, di sognarsi un giorno su un palco abbracciati a qualche strumento, cantando la propria canzone preferita. Volevo che sapeste, che questi sogni, a volte si avverano. Grazie Bistrot, è stato un onore. Alla prossima…

stuck on the end of this ball and chain
and i was on my way back down again
tied to the bridge, i was tied to a noose
[i have no idea what goes here]

stuck on the end of this ball and chain
well i’m on my way back down again
tied to the bridge, i’m stuck on the edge
stuck on the side, oh yeah

Il flash bianco che mi scatta di fronte, dalla porta sulla cucina, è un bagliore bianco che mi avvisa che è ora di pranzo. Dietro al flash, come E.T davanti all’astronave, vedo la figura piccola della mutter che si sbraccia, probabilmente urlando, coperta dal volume altissimo delle cuffie, per invitarmi a tavola.

Mi do una raddrizzata ai boxer ed esco nel bianco troppo intenso della cucina, facendomi schermo degli occhi accecati da tanta intensità, con la mano sulla fronte a mo’ di visiera.

Un fascio rettangolare inclinato, di bianco di maggior intensità, è disegnato in una porzione di pavimento, dai raggi del sole che si infilano obliqui, attraverso la portafinestra aperta sul terrazzino.

In quel punto il pavimento è caldissimo sotto le piante dei piedi nudi.

Sposto la sedia mentre pranzo, in modo da orientare la schiena in direzione del fascio di luce e calore esterni. Sento i muscoli prendere vigore e accumulare energia, ingordi come un pannello solare fiaccato dall’uso intenso, dopo una giornata di nuvolo.

Sono circa le quattordici e mi sto rasando i capelli in bagno, quando i primi suoni della processione di San Valentino, iniziano a riempire l’aria, compressa fra le vie del paese.

La banda suona, lo stesso instancabile antiquato pezzo, da cinquant’anni.

La mutter, che prima dell’intervento deviatore del sottoscritto e della sister, era, come tutte le vecchie mamme di paese, persona alquanto devota e rigorosa e all’antica, ora si limita a un osservazione ruffiana dei presenti, dalla finestra.

Glielo faccio notare per provocarla un po’:- Guarda guarda, dice tanto alle altre e poi è qua che spia di nascosto dietro la tenda, per poi correre a spettegolare al telefono con le sorelle…e hai visto quella..e hai visto questa…ohh, ma che vestito aveva! Visto com’è invecchiata la cosa?

Mi fa sssschhhhhhhhh col dito indice, verticale sulle labbra strette, troppo distratta nell’osservazione attenta, del movimento giù in strada.

I rappresentanti delle famiglie più in vista, si sono garantiti a suon di euri, il trasporto a spalla della statua. Dietro, ingessate in cappotti di naftalina, le pie donne seguono ipnotizzate, recitando come un nastro automa, vecchie cantilene religiose.

In seconda fila vi sono le sacre famiglie.

Moglie impellicciata, marito rispolverato del vestito del matrimonio e orda di bimbi imbizzarriti trascinati per un braccio o abbandonati nella disattenzione più totale.

Il marito ha la faccia di bronzo e le orecchie basse da cane bastonato.

Niente avrebbe voluto che la sua domenica al bar, un bianchetto, le carte, il calcio alla tv. E invece la moglie a rovinare i piani, a trascinarlo nel pubblico apparire, a sceneggiare l’unione familiare ideale e perfetta.

Quel povero mio coetaneo di M., con il suo sorriso ebete da castoro stampato sulla faccia, plagiato e anestetizzato dalla madre, si gode la sua domenica di fama, ondeggiando insicuro tra la folla, sotto il peso umiliante del microfono a megafoni che è costretto a trasportare sollevato in aria.

Probabilmente la mamma gli avrà raccontato che, in premio, questa sera, Gesù e tutte le nonnette del paese, gli dedicheranno un cento AveMaria e gli daranno un ingresso omaggio al backstage della messa di Pasqua.

In coda alla manifestazione, transitano anche alcuni miei coetanei, ex amici di gioventù. Anche per loro la sorte ingrata della perdita della domenica al bar, in parte mediata dal poter comunque continuare a discorrere di campagna e automobili e trattori, senza particolari intoppi, se non il fastidioso baccano della banda e il ronzio mesto delle litanie.

Mentre finisco di prepararmi, il pensiero buffo che questo paese abbia San Valentino come patrono protettore, mi assale. In effetti a pensarci, ha avuto un gran effetto.

In media, tutta la gioventù attorno ai venticinque anni, è già sposata da tempo con il primo amore delle medie. Sposata e già terribilmente annoiata e stufa. Sposata a vita piatta. Sposata con prole in età da playstation.

No, la playstation forse no.

Ma sicuramente già sapranno tutti i salmi a memoria e frequenteranno l’oratorio e il gruppo del catechismo.

Piccoli plagi crescono.

In effetti, a pensarci, San Valentino, a avuto un gran effetto.

Con un eccezione. Una pecora nera. Che sarei io.

Scendo nel portico che il traffico bloccato dalla processione, si sta districando tra le budella strette del paese. Saluto C&L in macchina, fidanzatini che a volte si aggregano al nostro gruppo di single.

Ci vedremo dopo mi dicono.

L è piuttosto carina.

Una Heidi dalle formo arrotondate, le guancette rosse e i capelli biondi.

Una ingenua disponibilità giovanile nel sorriso, alternata all’aria seria degli occhiali dalla montatura spessa. A volte quando ce la ho vicina, trasmette una piacevole sensazione di calore corporeo, davvero confortevole e stuzzicante.

Se C non fosse mio amico e non fosse appena passata una processione dai toni sacri, vi direi che io, L. me la farei volentieri.

Dato che la strada è bloccata, ho dato appuntamento agli amici lungo la provinciale, che dal fondovalle si arrampica su, in tornanti, fin sotto il paese.

Mi infilo in discesa, leggero nelle scarpe da tennis, tra portici bui e case addossate le une alle altre, dalle facciate logore  e decadenti, che puzzano di inizio secolo.

Passo attraverso la porta virtuale del tempo e mi ritrovo quasi un secolo dopo, lungo una stradina di campagna che, aggrappata ripida con le unghie al paese, precipita per un pendio di orti e campi di viti terrazzatti, sopra i quali le facciate verticali delle case a valle, si affacciano sporgenti sulle punte, come a sbirciare curiose, giù dentro un burrone.

Avrei voluto mettermi la mia maglietta bianca di cotone preferita sotto la giacca, ma per evitarmi i cazzi della mutter sul bisogno di coprirsi nel post influenza, mi sono addirittura infilato la maglietta della salute e un maglioncino di lana nero dal collo alto.

C’è un sole primaverile e aliti d’aria calda che soffiano dall’origine della vallata, dentro a nord est.

Veleggiano morbidi come fiume tra le anse, assorbendo profumi di boschi al risveglio, fiori lillà tra la neve a chiazze e campagne arate di fresco. Li trasporta mischiati sulla superficie densa, fino a depositarmeli di fronte, a risalirmi intensi e nuovamente scomposti nella testa.

Ho strane e fasulle percezioni visive di un paesaggio meno secco e polveroso e più pastellato di colori intensi e verde d’erba fresca.

Ma so che è solo un miraggio sensoriale, creato dall’essere rimasto troppi giorni in casa senza uscire.

Il caldo invece, è del tutto reale e non sono nemmeno arrivato al punto d’incontro, che già mi sento tutto accaldato e arrossito, avvampare di uno strano fuoco da sfregamento sotto i vestiti.

Mentre F. mi racconta del weekend che mi sono perso, l’afa non mi si leva di dosso e anzi comincia a materializzarsi sotto un velo leggero di sudore sulla fronte. Abbasso di qualche centimetro il vetro e infilo fuori la bocca a trarre qualche boccata d’aria fresca e ossigenata, come un pesce che risale in superficie dopo l’immersione.

Facciamo una sosta in gelateria, prima della spedizione alla Fiera degli Sposi, che gli amici mi hanno organizzato, per il rientro all’attività.

Bella fantasia ragazzi, i miei complimenti.

Mi prendo qualcosa di leggermente alcolico, come primo impatto, un mix incolore e insapore di ruhm e succhi di dubbia provenienza, con una pianta di ananas piantata sulla sommità del bicchiere. Ci sono delle cameriere con delle mini ascellari e delle calze improponibili, zebrate o con i cuoricini.

La mia cameriera preferita, quella delle pillole, ha il suo solito sederone consistente e la faccia cicciotella e gentile da Nonna Papera.

Dietro gli occhiali dalla montatura azzurra, gli occhi sono quasi appiccicati e non so cosa riesca a vedere attraverso la sottile feritoia aperta. Probabilmente questa notte Ciccio l’ha costretta a rimanere alzata perché aveva voglia di torta.

Si sa, quello è molto goloso e insaziabile.

Quando usciamo mi sussurra tra le labbra, anche quelle strette strette:-non ce la faccio più.

Le sorrido.

Alla Fiera degli Sposi mi sento parecchio a disagio. Ovviamente riusciamo a farci riconoscere già all’ingresso, al momento del biglietto.

W, come sempre ultimamente, è l’unica nota stonata del gruppo.

Si trascina con la sua aria depressa da sacco da pugilato picchiato tutto il giorno, insofferente a tutto e a tutti, senza spiaccicare una parola, se non al puro scopo di lamentarsi o sbuffare. Le spalle basse e avvizzite come caricate del peso dell’umanità, l’idea pensata ma malamente celata, di credersi furbo e adottare tutte le tecniche possibili per fare il risparmioso e non scucire mai una lira dalle braccina corte.

Una palla al piede in un cammino scalzo dentro un prato estivo.

La fiera è interessante di per se, se uno avesse l’impellente necessità di convolare a nozze.

Considerando che solo il fatto di mettere piede nel giardino dei sentimenti, mi provoca preoccupazioni e timori e panico claustrofobico e vertigini, la mia presenza fra gli stand, mi pare alquanto prematura.

Ma già che ci sono, approfitto per fare un pò di pratica alla mia tecnica seduttoria grezza e primordiale, provolando qua e là, le annoiate e stressate belle figliole, impiegate sotto i vari gazebo.

La cosa richiede un notevole impegno di brillantezza e lingua sciolta, cosa che mi è abbastanza estranea alla domenica pomeriggio analcolica, quindi ripiego su una più semplice osservazione delle parte femminile delle centinaia di coppiette, tenere tenere, mano nella mano, occhi negli occhi, che si aggirano appiccicose per i corridoi al neon del seminterrato, saturo di mieloso amore caramellato.

Lì per lì penso sia davvero impuro e soprattutto inutile, agitare nella mente, pensieri peccaminosi sulle varie Grazie che mi circondano, dato che, teoricamente, dovrebbero rappresentare, l’apoteosi della fedeltà, vista la location.

Ma si sa di questi tempi moderni, tutti i concetti sono relativi alquanto, e di conseguenza, appena qualcuna mi lancia un occhiata di traverso o uno sguardo fugace, la ricambio volentieri con una radiografia completa e un sorriso bianco  a tutto denti.

La parte negativa di una Fiera degli sposi, è che non c’è nemmeno un bancone del bar al quale ristorarsi.

Imperdonabile carenza.

Abbandoniamo, comunque ritemprati visivamente e nel morale, per uscire alla ricerca di qualcosa di più consono alla nostra situazione da single incalliti e costretti.

Un locale aperto nella città deserta e sonnacchiosa.

La primavera illusoria del pomeriggio, si è avvizzita come un fiore invernale troppo prematuro tra i ghiacci, lasciando nuovamente campo, all’inverno inoltrato.

Sui gradini dell’uscita, venti pungenti da nord, spazzano dalle narici, gli ultimi aromi floreali dei fiori d’arancio.

 

18 Risposte a “PICCOLE VITE DI UNA DOMENICA DI FALSA PRIMAVERA”

  1. come le dolomiti a 30km ma non nevica? non ci credo… che scherzi crudeli il destino 🙁

    su su impara a sciare! non puoi fare questa cattiveria al destino cosi’ benevolo che ti piazza cosi’ vicino alle stupende cime dolomitiche ^__^

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.