RICCARDO MALFERRATO.

Mi chiamo Riccardo Malferrato. Quando le cose vanno davvero male, una persona nelle mie condizioni non desidera pacche sulle spalle. Incoraggiamenti. Consigli del cazzo. Desidera una telefonata, di una persona stretta, a cui gli eventi vadano altrettanto male. Se non peggio. La condivisione è lenitiva, più di qualsiasi buona notizia. Confusi tra gli aliti caldi del gruppo, ci troviamo fra simili, con le spalle protette, nuovamente occultati, uniti indistintamente nella cattiva e nella cattiva sorte. La felicità è una sensazione che sorge per contrasto nei momenti di svago e disattenzione. Non ci si può credere, non ci si può abituare. Anche questa settimana il trasferimento tanto sperato, mi è stato nuovamente posticipato. Congelato, in attesa di valutazione. Mi sono messo ormai nell’ordine di idee che rimarrò in questo buco a lungo. Durante la pausa pranzo, al ristorante-mensa di zona, divido con me stesso il solito tavolino da quattro. I miei colleghi mangiano a casa. Sabrina, la segretaria, si è appena sposata e si accontenta di un tramezzino a tre strati in ufficio. Fa economia e si dichiara entusiasta e realizzata dalla nuova vita. E’ d’aspetto abbastanza sciatto, pallida e senza segni d’evidenza. Le briciole che immancabilmente al rientro in ufficio noto sul suo golfino, mi causano una gran tristezza. Ma forse è lei. Beve l’acqua del rubinetto del bagno che sa di tubature ormai andate. A volte, quando non ho sete, le porto dal ristorante la lattina da venti centilitri di the al limone che è compresa nel buono pasto. Sorride leggermente vagamente vergognosa. Stavo mangiando un piatto di pasta al sugo e nonostante i tentativi, i due elementi non sembravano volersi mischiare. La pasta rimaneva bianca e liscia in superficie, il pomodoro sul fondo rosso fosforescente. Sono statocostretto ad alzare la testa dal piatto dato che ho percepito delle presenze in piedi davanti al mio tavolo. Ho riconosciuto Franco dal suo ghigno bianco strafottente. Gli era venuto con i primi successi, quel sorrisetto. Eravamo stati amici per tutto il periodo scolastico, da li in poi qualche incontro fortuito. Dopo la scuola tutto quel che fintamente accomuna, l’essere studenti, svanisce, e ognuno affiora per quel che è. Era abbronzantissimo. Ricco, bello. Uno stronzo. Mi chiede che ci faccio qui. E’ un, non dovresti essere qui, in questo posto per miserabili. Mangio, gli rispondo. E tu? Questo posto è mio, mi dice. Mi sono dato alla ristorazione su larga scala. Complimenti, mormoro, guardandolo dal basso, mentre allontano il piatto. La tizia che sta con lui lo abbraccia da dietro infilandogli le mani dentro le tasche dei pantaloni. Gli si strofina contro, lo tira verso di se e gli sussurra. Amore dobbiamo andare. Devo scappare, mi fa. Lo saluto senza guardarlo, alzando la mano mentre fisso la bistecca di cartone e i fagioli verdi bolliti ai quali non è stato nemmeno tolto il picciolo. La tizia è conciata come un mignottone. Penso che non potrò mai permettermela. Nel parcheggio ho trovato una leggera ammaccatura sul fianco della macchina. Mentre guido verso l’ufficio metto le cuffiette con la musica, perché l’autoradio si è guastata qualche mese fa e probabile mi costa meno cambiare l’automobile. Stavo ascoltando un pezzo metal. Ho dovuto spegnere, perché mi suonava il telefono. Era Nicole. Non avevo affatto voglia di risponderle perché sapevo già cosa mi avrebbe raccontato e ciò nonostante il mio morale ne avrebbe ugualmente risentito. Rispondo con una voce squillante e un allegria assolutamente finta. Lei è di un allegria insopportabile. Quando riattacco sono all’ufficio ma rimango qualche minuto seduto in macchina a pensare e a recuperare quel senso di blocco allo stomaco. Spesso è totalmente impossibile distinguere tra l’innocenza, la stupida ingenuità e l’assoluta lucidità delle persone. Forse l’innocenza non esiste, ma siamo noi a mascherare i peccati per via degli affetti. Nicole mi prometteva incontri e mi lasciava parole gentili da due anni a questa parte, dal giorno del nostro incontro. Era incinta e non ero stato io. Nonostante le illusioni finiscano per lenirsi col tempo, hanno sempre bisogno di perire in maniera plateale. Mentre salivo le scale mi sono bevuto la lattina che avevo portato per Sabrina. L’ho accartocciata nervosamente e mi sono sporcato le mani di liquido appiccicoso. L’ho trovata nell’atrio che faceva la stupidotta con un rappresentante brizzolato, dalla lingua sciolta e dai modi arguti. Lui le teneva la mano su un fianco, lei aveva le guance rosse e il golfino era poggiato alla bene e meglio sopra la scrivania. Ho chiesto permesso e mi sono infilato in ufficio. E’ una sala per corsi e mi sonoscelto una postazione a caso. Non entra un filo di sole in tutto il giorno e devo continuamente accendere le luci al neon.

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