Sceneggiature.

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Quando uscivo con Audrey Hepburn mi annoiavo mica poco. Troppa bellezza canonica, robe tipo la ceramica e il vetro soffiato, nessun spigolo vivo, nessuna imperfezione, solo il continuo senso di imminente fragilità. Per uno di montagna abituato a pietra lavica e legno era decisamente troppo. Ti aspetti sempre di ritrovarti fra indice e pollice il manico della tazzina e sulle ginocchia i fondi del caffè da leggere, quando frequenti una come la Audrey. Me la guardavano tutti quando si andava in centro, risaltante com’era con quei completi al ginocchio, bianchi o pastello e quell’illuminazione da teatro di posa che le restava addosso a prescindere, chissà da dove e chissà da quando, forse, pensavo, la luce di quando vieni al mondo e esci di testa anziché di piede. Non le davo mica la mano mentre si passeggiava, parlavo e parlavo guardando avanti e in giro, le stavo ad un metro scarso, sempre un passo avanti. Le buttavo un occhio ogni dieci passi per vedere che cosa avesse per la mente, per capire chi fosse in quel dato momento. Così, come si guarda uno che si sta superando nel traffico, mettevo a seconda dei casi uno sguardo dalle sopracciglia aggrottate o una faccia ruffiana alla Belmondo; quanto si usa in genere con i tassisti nevrotici e con con le segretarie d’azienda. La Audrey mica si sapeva se ti stesse ascoltando: canticchiava continuamente, seguiva con lo sguardo ipotetici calabroni e farfalle e non so quali cinguettanti volatili librarsi nell’aria. Anche quando non se ne vedeva l’ombra, gaudente come una seienne al reparto bambole, dondolava quella sua borsetta ed era contenta così. L’incoscienza assoluta di essere peribile. Francamente per i gusti del sottoscritto mancava di un certo spessore: al di là di quanto era in effetti, magra all’osso.
Era successo così che mi mettessi a fare un certo filo alla tizia che lavorava da Stefania; l’addetta alle torte. Lodovica centellinava le parole ma aumentava di colazione in colazione la larghezza delle fette. Tornavo al bancone quante più volte possibile, con frasi studiate o con il più consono qualunquismo del cliente. Niente, era sfuggevole come una ciliegina caramellata alla forchetta a tre denti. La rincorrevo sopra il piattino e lungo il tavolino e fin dentro una qualche scollatura. E a quel punto lei era già filata via, verso un altro cliente, dentro il laboratorio, schiaffeggiata sulle natiche dalle porte a spinta gialle con gli oblò. Aveva delle belle gambe, portava i tacchi e un anello all’anulare. Le relazioni dalla rapida soluzione iniziale mi hanno sempre tendenzialmente insospettito, quelle impossibilitate al decollo tendenzialmente attratto. In entrambi i casi vigono aspetti non conosciuti, per noncuranza o per certa volontà, che prima o poi presentano il salatissimo saldo. Lodovica sembrava sapere il fatto suo, altera, distaccata, cenni di ironia beffarda e noncuranza. Come impegnata dentro un passatempo che non ci si è cercati accuratamente ma scelto per svogliatezza, solo uno sbadiglio in meno garantito rispetto all’ozio medio del non farlo, sempre con la sensazione di poter mollare tutto senza neanche un sospiro finale prima del tasto cancella.  Questo mi pareva, al di là delle possibili complicazioni e dei tentennamenti dati dallo stato civile, al di là di improvvisi slanci di materna disponibilità.
Un giorno Lodovica mi ha telefonato.
In campo ciclistico, fare l’elastico, negli inseguimenti alla persona in fuga, è una tecnica estremamente rappresentativa dell’ essere terreno medio: essere in perenne bilico fra l’arrendersi e il tentare l’impresa. Negli sbalzi emotivi ed umorali dati dal veder avvicinare e poi allontanare e poi avvicinare e poi allontanare l’obiettivo, in mancanza all’orizzonte di uno scollinamento o di un traguardo salvifici od interruttori, fu solo per quella fragranza di torta di mele che rimaneva sul collo di Lodovica, che nelle mattine dispari non volli trovare dei seri motivi per desistere.

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