UN CIGNO CON L’AVIARIA E IL BAMBINO OSVALDO. O VICEVERSA.

Pasqualino di mercoledì mattina, ma forse era anche un altro giorno qualsiasi, trotterellava attraverso il parco e in direzione della scuola, domandandosi come ogni altra ulteriore volta, perché lo avessero, supponeva i suoi genitori, ma nutriva qualche dubbio potesse essere stato quel tale che l’aveva quasi affogato dentro quell’acqua stagnante e poi gliela aveva versata, non contento, anche in testa, perché dannazione lo avessero chiamato Pasqualino. Lui che era nato a ferragosto e non era tra l’altro, nemmeno così piccolo, per la sua età, da meritarsi quel diminutivo. Santino, Luigino, Gennarino, Agostino, Martino, Vincenzino,Pasqualino. Che minchia di nomi, pensò. Non avrebbe dovuto dire le parolacce. Uno dovrebbe poter decidere come chiamarsi, da se. Una volta raggiunta la facoltà di intendere. Lui avrebbe scelto Osvaldo. Una parola forte, adulta, di già con la barba e i capelli sulla pancia, che riempiva la bocca come le Girelle Motta e poi ti toccava bere un sacco di Coca Cola e pure lavarti i denti. Osvaldo, credeva, sarebbe stato anche il nome ideale per quando sarebbe diventato aviatore. O un pilota, che doveva essere più o meno la stessa cosa.

Quella mattina era più stanco del solito. Anche quella notte i suoi lo avevano tenuto sveglio con i lavori di là, nella camera grande. Chissà cosa avevano spostato questa volta. Probabilmente l’armadio nero a giudicare dai grugniti del suo papà, quello con gli specchi sulle porte e il braccio di Capitan Uncino per prendere i cappotti dallo scaffale più in alto. In effetti doveva essere bello pesante e poi mamma era arrivata tardi con gli aiuti e dopo una gran corsa ansimante perché aveva urlato “vengo, vengo” solo quando papà si era messo all’opera da un bel po’ e probabilmente lui a quell’ora si era schiacciato qualche dito o era davvero sfinito, perché aveva urlato più del solito e poi era corso in bagno di gran fretta. Quello che non capiva era che poi, la mattina, i mobili della camera era sempre allo stesso posto, a parte le lenzuola che erano tutte ribaltate e in disordine e le finestre, spalancate, che entrava tutto il sole e gli bruciava gli occhi, quando infilava dentro la testa per curiosare, che tanto erano già tutti andati via al lavoro, e in casa c’era solo la sua colazione pronta sul tavolo della cucina e i suoi vestiti, nuovi o vecchi, sistemati sul divano.

Se la notte non dormi poi la mattina gli occhi ti bruciano e fanno le scintille come quando guardi troppa tv o fai troppe partite al videogioco di Aviator Space Invaders e quando al parco ti viene da guardare le strisce bianche degli aerei nel cielo, sembra che le pupille ti cadano dentro la testa all’interno e le ciglia si intrecciano come capelli sporchi, e bisogna sfregarli con le nocche degli indici per poter distinguere i DC9 dai Boeing e gli internazionali dai nazionali e i bi-elica dai jet privati.

Quella notte con tutto il tempo che aveva avuto, aveva fatto mille ipotesi su come facessero gli aerei a non scontrarsi, quando invece il cielo azzurro era pieno delle loro scie bianche tutte incrociate o a volte così vicine che i passeggeri si potevano salutare con la mano da un finestrino all’altro e se c’erano bambini, probabile avevano pure il naso e le labbra schiacciate sul vetro o i più dispettosi si facevano le boccacce e si mostravano il dito più lungo, come a scuola. Se il suo nonno non fosse partito per quel lungo viaggio sulle stelle, gli avrebbe saputo dare una spiegazione. A lui non piacevano i viaggi di notte perché non si vedevano le scie, ma solo le lucette lampeggianti sulla pancia e sulle ali e poi lui a quell’ora doveva sempre essere a dormire, o più che dormire, doveva essere sotto le coperte a sentire i suoi che facevano rumore.

Comunque lui si era fatto l’idea, che gli aerei, essendo come una grande famiglia che si voleva bene, potessero passarsi attraverso senza scontrarsi e nessuno si accorgeva di niente perché a mille chilometri all’ora succedeva tutto in un attimo e sentivi solo un po’ di vento nei capelli.

Quella mattina teneva gli occhiali da aviatore del nonno sulla fronte, perché a forza di pensare gli si era ingrossata la testa, almeno così credeva, e di conseguenza il grosso elastico gli stringeva troppo sulle tempie. La cartella dei Mac Robots, squadrata e piena di spigoli vivi come un fustino di detersivo della lavatrice, gli sporgeva lateralmente come un paio d’ali, ma era mal calibrata sulle cinghie e così gli penzolava ben sotto il sedere e nei passi più slanciati, finiva per battervi i talloni sul fondo.

Aveva chiesto ai suoi di poter avere uno zaino militare con i colori mischiati ma gli era stato vietato. A sei anni era ancora un bambino.

Doveva fare pipì, se ne dimenticava tutte le mattine e così, abbandonata la cartella sulla riva del laghetto, come molti altri giorni, si abbassò i calzoni e iniziò a farla dentro l’acqua. Suo papà gli aveva raccomandato che se proprio doveva farla, era buona cosa si nascondesse dietro un albero o contro un muro. Ma suo papà diceva anche che la notte bisognava dormire e invece poi faceva tutto quel fracasso con la mamma. E poi era divertente vedere i cerchi concentrici che si allontanavano sulla superficie liscia e cercare di farla sempre più lontana e sentire l’aria fresca sul suo pistolino.

Un cigno che spuntò da dietro un canneto isolato, gli fece prendere un gran strizza. Infilò il suo coso dentro le mutande e si tirò su i pantaloni facendo qualche passo in dietro. Merda. Non poteva dire le parolacce. Ma non aveva finito e senti uno strano calore umido bagnargli una coscia. I cigni gli piacevano ma assomigliavano troppo alle oche e una volta un oca l’aveva rincorso e lo aveva beccato dappertutto, quando erano andati a trovare quegli amici di sua mamma o di suo papa in campagna. Lui era ritornato in città pieno di lividi sulle gambe e parecchio annoiato da quel fine settimana, perché non aveva fatto altro che starsene fuori in cortile, mentre dentro i grandi giocavano ad un gioco di società che si chiamava Scambio di Coppie.

Ma questo cigno aveva qualcosa di strano. Non stava eretto e fiero col collo dritto come una giraffa come di solito fanno i cigni, ma navigava su un fianco ed era tutto tipo raggomitolato. La corrente lo stava spingendo verso la riva. Verso di lui. Capì che non stava dormendo perché i cigni che dormono infilano la testa sotto un ala, come suo papà che si annusa le ascelle prima di uscire.

Era morto e se ne accorse quando lo toccò con la punta della scarpa e quello non si spaventò nemmeno un po’. Ora si sentiva molto più coraggioso, forse dispiaciuto e anche preoccupato. Cha avesse fatto troppa pipì dentro il lago e il cigno fosse morto così avvelenato? Lo guardò meglio per vedere se fosse magari giallo in qualche punto. Forse avrebbe dovuto ascoltare il cadavere, come aveva visto fare nei film della sera, quelli dopo i cartoni animati. Pensò dove avrebbe potuto nasconderlo.

Ma in quel preciso momento, una voce da dietro, gli fece gelare le ossa, e prendere un’altra bella strizza.

:-Bambino, non lo toccare, allontanati! Era il guardiano del parco. Era un tipo basso con i baffi e aveva una divisa di un colore brutto, quasi uguale a quella dell’acqua stagnante dei canali. Però non aveva la pistola, ma solo una specie di radio che premendo un bottone ci potevi parlare dentro e dall’altra parte si sentiva uno strano rumore, tipo quando metti la mano dentro il sacchetto delle patatine.

:-Non lo hai mica toccato vero? E’ pericoloso!

:-No, però tanto non poteva farmi niente. Mi sa che è morto.

:-Appunto. Questo può essere che abbia l’aviaria.

:-Che cos’è l’ aria aria?

:-L’aviaria figliolo. L’aviaria. E’ una nuova malattia dei volatili.

:-E chi sono i volatili? Eh, tutti gli uccelli, quelli con le ali, gli animali che volano.

:-Io non li ho mai visti volare i cigni.

:-Come ti chiami bambino? Pasqualino. No cioè. Osvaldo.

:-Bè, vedi Osvaldo, i cigni non volano perché ormai stanno bene sulla terra o nell’acqua. Però se li guardi bene, la vedi la faccia assorta e distaccata, come se stessero pensando a chissà che? E’ perché stanno sognando di volare.

:-E’ per quello si prendono questa malattia e puoi muoiono?

:-Bè che dire, in un certo senso si.

Non era mica giusto. Ma la guardia aveva la divisa e suo papà gli aveva insegnato che quelli con la divisa hanno sempre ragione, anche quando non ce la hanno. C’era un aereo in transito sopra le loro teste in quel momento. Lasciava due scie bianchissime contro il cielo azzurro. Ma Pasqualino non era più molto interessato. Adesso avrebbe dovuto trovarsi un nuovo lavoro.

8 Risposte a “UN CIGNO CON L’AVIARIA E IL BAMBINO OSVALDO. O VICEVERSA.”

  1. Ma la gara di biglie, almeno, l’abbiamo vinta?

    Mart, non volevo farti passare la voglia di imparare a nuotare, è una figata, solo fai attenzione a non sceglierti un istruttore il cui passatempo preferito sia urlarti dietro, il resto andrà liscio come l’olio. Ti ho convinto?

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.