VERO ALL'ALBA

Apro la porta di casa e inciampo nella bottiglia di plastica trasparente senza etichetta della coca cola, che sta nell’angolo piena d’acqua stagnata, a difendere il prezioso zerbino, dalla pisciate marchia territorio di quello strano, inutile, vile, strusciante e felinamente elegante animale, che è il gatto.

Apprezzo certi tipi di gatti, sopratutto quelli neri.

Solo credo che un giorno ne fermerò uno per chiedergli come mai hanno un tal paura fottuta di una semplice bottiglia trasparente piena d’acqua. E’ un cruccio che non mi fa dormire. Che siano degli alcolisti incalliti?

Potrei cominciare a capirli. Allora.

La bottiglia gommosa rotola ubriaca giù per le pedate in porfido grigio a venature rosse della scala esterna, fino a fermare il suo jogging mattutino contro la maglia metallica del parapetto nell’angolo.

La inseguo con le articolazioni ancora poco rodate e le cartilagini arrugginite della notte e l’acido lattico da mungere nei polpacci post palestra.

La raccolgo e la riporto su, piazzandola verticale nel suo angolino, non dopo averla accarezzata sulla schiena e sussurratole a bassa voce….”Brava piccola, stai qua a fare la guardia dall’urina invasore “.

Mi volto a guardarla quando sono sul pianerottolo di mezzo.

Mi strizza l’occhio e mi fa okkey all’americana col pollice all’insù.

Arrivo nell’atrio del portico fronte strada che l’aria invernale mi alita addosso meno pungente del solito a pochi gradi sottozero, aromi di sterpaglie affumicate e deboli gas di scarico del traffico pendolare del mattino.

Come sempre sono vestito poco e mediamente anonimo.

Poco mi importano lo stile e la presenza nell’ l’anonimo ufficio  di montagna a composizione unicamente maschile che mi aspetta, qualche chilometro più a monte, affondato in una selva di abeti e villette monouso.

I piedi nelle scarpe da ginnastica plasticate, battono i denti e si danno delle piccole pacche addosso per scaldarsi.

Mi fermo in mezzo alla strada stranito dal cielo, che è un sandwich sezionato bigusto, metà azzurro puffo e un mezzo arancio-rosso-rosa fiamma, con delle tendenze alla striatura viola, nel punto di contatto.

Provo a comparare i gusti ai colori. Arancio-rosso-rosa: crema di salmone e salsa tartara. Azzurro?…azzurro…azzurro… Mmm…sufflè di viagra?

Cazzo di sandwich.

Mi brontola lo stomaco.

Resto stordito in mezzo alla corsia mentre all’orizzonte si profila la sagoma minacciosa di un tir, annichilito davanti alla mia vecchia casa dalla facciata bianca e finestrelle rosse, che sta andando a fuoco.

Le fiamme divampano regolari senza picchi di intensità e propagano un appena palpabile aumento di temperatura.

Roteo gli occhi dentro la testa come un periscopio spione che fa capolino in mezzo alle onde verdi blu dell’oceano.

Tutto il paese sta bruciando.

La casa rosa dei miei vicini è un confetto arrostito.

E’un vero peccato.

A metà percorso dal finestrino schizzato di gocce di fanghiglia e sali stradali invernali e poltiglia di neve sciolta, vedo distorta, come attraverso un vetro satinato, sulla sponda opposta della vallata, al centro dell’orizzonte, la grande montagna conica che si staglia bianca contro il cielo, come un enorme dente di castoro all’insu  con delle macchioline di carie nera alla sommità.

L’origine dell’incendio deve essere alle spalle del grande dente, perché in quel punto banchi di nuvole sottili e trasparenti come fogli di pasta sfoglia, sanguinano copiosamente di rosso intenso, dentro un tramonto marino anticipato all’alba.

Forse un cuore è esploso solitario riparato nell’ombra del monte. Infiammando. Entrando in combustione con l’ossigeno puro invernale.

Un cuore che bruciava d’amore.

Anche i boschi sul pendio che sto percorrendo stanno bruciando.

Sono contento.

Hanno un colore rosa pallido felice, diversamente dai toni marrone, grigio polvere e verde scuro che generalmente proiettano con lo sguardo triste e la bocca a u rovesciata di tutte le mattine d’inverno, quando non nevica.

Il contorno tra le curve dolci e in parte seghettate a zig zag delle montagne e il cielo bicromato, è netto e definitivo, come tracciato a penna nera.

Penso che il cielo abbia voglia di staccarsi, come una crosta dalla ferita guarita. Forse non ama il caldo o forse l’energia dell’esplosione lo sta spingendo su alla deriva, risucchiato alle spalle da un buco nero.

La neve resiste tenace dal canto suo. Nessun segnale di scioglimento. Semplicemente la superficie cristallizzata a facce diamantate, riverbera di toni rosso corallo sulla superficie umida. Solo i terrazzamenti a vite sulla sponda sottostante rimangono tristi nel loro ombroso buio mattutino color carbone, rigati a fasce verticali, di spruzzi spray di neve bianca, come increspamenti schiumosi, d’onda in prossimità degli scogli.

Scendo dalla macchina e nell’aria c’è odore di bruciato.

Aromi di vaniglia, zucchero caramellato e pollo arrosto mi riempiono le narici scivolando in gola.

Ma nessun apparente presenza di fumo da combustione. Solo aria tersa invernale scaldata al termosifone.

L’incendio si è esaurito entro la prima mattina, quando del cuore arso, non è rimasta che cenere, che il vento leggero da nord, ha preso a disperdere nell’aria, come impalpabili e vellutati frammenti di petalo di geranio rosso.

Un debole sole invernale, privato dell’alba bianca e anticipato del tramonto, ha iniziato la sua rotazione compassata, tentando di sciogliere, con raggi di luce dalla bassa inclinatura, lo strato superficiale gelato dei cuori, che l’esplosione d’amore all’alba, non era riuscita a scalfire.

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