VILLA MARGARITAS

:- Giorno Johnny. Alla fine vien sempre l’ora di ricominciare eh!

:- Gia Frank, i rientri hanno sempre quel qualche cosa di amaro.

:- Il segreto è addolcirsi per bene il palato durante, per essere ben anestetizzati all’impatto. Il segreto è anche riuscirci.

:- Hai il profilo tirato, gli occhi restii. Tu non ci sei riuscito eh Frank?

:- Cristo. Ho un vuoto nello stomaco. Un assenza d’aria che non riesco a colmare. Un foro da palla di cannone all’altezza della pancia e le ginocchia molli. Su, la margaritas era dolcissima, ma il lago era un bel po’ mosso.

:- Mi fa stano, strano davvero. Che sia profondo è risaputo, ma in genere lo ricordo così placido, con quegli occhi verdi e scuri sempre fissi, senza un battito di ciglia che sia uno, una macchia d’olio di frantoio sulla camicia verde dei monti. D’altronde in quel posto non v’è nulla che non sia tranquillo. Anche la notte, nella sua frenesia alcolica, a quel non so che di languido e sinuoso e silente.

:- Vero Johnny. Ma non era un movimento d’onde che m’ha scombussolato. E’ stata una burrasca di sensazioni. Soffiata da un vento caldo che si è fatto via via più intenso, fino a muovere onde sempre più alte, prima contro gli scogli sulla riva, poi dentro i porticcioli lastricati e sotto le chiglie delle barche a parcheggio, infine su, alte sotto i piedi e fino alle ginocchia, a far ballare l’equilibrio della testa. Io non ci sono abituato a stare al largo, così esposto agli elementi. La mia abitudine è tutta da costruire. E questo lo sai.

Il quartiere dietro il monte, era quello degli anni della scuola. Gli anni della crescita, non solo fisica. Prove della vita. Il lago gira infiltrandosi, nelle pieghe dei monti, a riempire ogni pertugio, ogni anfratto disponibile. Ne segui il profilo, lo studi nella mente, cercando di dargli una forma regolare. Eppur non riesci a raccapezzarti. Quel che vedi di fronte, in teoria è alle spalle, quello che ti era sulla destra, poi lo trovi ad ovest. Ride. Tieni il monte come riferimento, ti dice. Montini ha un giardino all’esterno del locale, al di là della strada e a una decina di metri dall’argine del lago. C’è una gradinata di marmo bianco, un po’ ingiallita dalle alghe, che dalla camminata, scende scomparendo nel lago. Mentre l’ascolto e non so che dire, perché le sue parole come m’annebbiano, penso a quella scala e a quanti gradini sarebbero necessari ad arrivare fin sul fondo. Quattrocento metri. Sarebbe la migliore delle scalinate, bianchissima, con i parapetti massicci lavorati a capitelli, e la gente seduta ai lati, in varie cose affaccendata. Le cameriere attraversano la strada per venirti a servire. Non passa nessuno. Sembra che il paese dorma. E la vita si muove sottovoce per non disturbare il sonno. Sotto l’ombra di una ghiandaia, che si estende fino al limite del giardino e lungo il pontile in pietra fino ad esaurirsi sopra il riverbero di uno squarcio di sole disegnato nel lago, scorrazza un nugolo di bambini. Li ascolto, ma non fanno nessun rumore. Nemmeno loro. Forse qualcuno a premuto il tasto mute. Semplicemente forse sono sintonizzato su altre frequenze. Il Signor Hemingway sta scrivendo qualcosa seduto ad un tavolo all’angolo. Batte sulla macchina da scrivere a tempi regolari. Il ticchettio dei tasti sembra il picchiettare della pioggia sulla pensilina della notte scorsa. Ha del vino bianco in fresca. E quella deve essere sua moglie. Ha l’aria di una donna davvero simpatica. Gli parla di continuo mentre lui bofonchia qualcosa in risposta. Piacerebbe farci due chiacchiere con Hem. Chissà di che si finirebbe a parlare. Probabile di donne. Ma forse finiremo per metterci a bere. E sarebbe cosa migliore perché le donne mi fanno pensare e poi mi vengono questi gran vuoti d’aria e non sto affatto bene. Anche se prima mentre la macchina scivolava lungo la strada tortuosa un po’ asciutta, in parte ancora bagnata dalla mattina e lei mi ha chiesto delle mie donne e io non ho avuto molto da dire o forse non ho trovato le parole, bè cristo ora vorrei aver potuto tirare avanti il discorso fino a notte. Ma che vuoi che abbia da dire uno, che di donne non ne ha mai avute. Ha solo da sperare.

:-Ehi Frenk, ora dimmi un po’ di Lady Chandler.

:- Bè, vedi Johnny, se fossi un buono scrittore, forse troverei le parole per farti capire. Oppure è probabile che pur essendolo, non sarebbe comunque possibile trovare i termini adatti. D’altronde chissà se esistono i modi per descrivere le emozioni. Sì, perché è qualcosa che va oltre il fisico, quello di cui ti dovrei raccontare. C’è della gran bellezza, è vero, e degli occhi scuri, nei quali, quando le parole tacevano e i sorrisi profusi non mi erano di distrazione, ho visto quel filo di paura, quell’alone di tristezza che frequente, trovi agli angoli degli occhi di un cerbiatto spaesato. Ma quelli che si fanno da se, quelli che ne provano sulla pelle un bel po’ d’abrasioni, quelli che semplicemente hanno la scorza troppo sensibile e quindi gli si piantano addosso molte più cose rispetto alla media, bè quelli si tengono sempre sul fondo degli occhi, una certa lucidità da lacrime, un po’ per ricordo, un po’ per avvertimento. Ma non è la bellezza di Lady Chandler che ti potrà conquistare, che ha conquistato (quanti ne ho visti Johnny, aprirsi di sguardi, incontrandola, quanti davvero), ma è quell’accompagnamento di vita che si porta appresso. Mi sono domandato vedi, se tanta energia, l’impatto, la forza, siano stati la reazione a qualcosa di maligno, che nell’arco della crescita si posa essere presentato, o se sia una semplice predisposizione naturale dalla nascita, che il dolore è solo riuscito a scalfire, come una riga sulla vernice metallizzata.

Un motoscafo  bianco con la chiglia in assi di legno, corre lungo il lago, attraversandolo nella direzione della larghezza. E’ una superficie dalle forme irregolari, quindi il termine larghezza, è del tutto privo di fondamento. Sta di fatto che il motoscafo fila via veloce, alto sulla punta. A bordo una signora di mezza età, sta in piedi a prua, a fianco del pilota. Pare una diva del cinema. Dei grandi occhiali neri le proteggono la vista dalle sferzate del vento e dagli schizzi d’acqua. Con la mano destra, tiene fisso sui capelli  un cappello di paglia, mentre la gonna bianca, turbina nella velocità, scoprendole i polpacci. Dietro il motore, una scia di schiuma appena accennata. E’ un lago verde con un gran stile, non ti quelli azzurri e giovani e un po’ sbruffoni che trovi nelle valli alpine. E’ un signore di mezza età che si specchia sui pendii circostanti, assorbendone il colore. Si direbbero conifere sulla sommità, ma alla base del pendio, occorrerebbe un eccessiva conoscenza per poterne classificare le varie specie. Ma sono dei gran boschi e le case, in gran parte villette familiari dalla varia fattezza e tecnica costruttiva, vi si sono mimetizzate nel mezzo, gentili e vagamente sofferenti per lo sforzo di mantenersi aggrappate al terreno. Mi porta sotto i portici e poi nei vicoli e tra le vie strette del borgo dei pescatori, con gli edifici che in cima, sembrano sfiorarsi per quanto è sottile la striscia di cielo che li separa. Con gli edifici che nel mezzo, si porgono la mano per quanto le finestre sono vicine. Una scalinata che passa sugli usci di casa, tetti rossi sotto di noi, il fiato corto dentro i polmoni, signore eleganti che escono da un matrimonio. Si distrae al telefono. Prendo fiato. Non è solo affanno fisico. Mi guardo attorno, assorbendo immagini. Ho miraggi di una ragazza per mano e di un bacio in piedi, contro il parapetto. Oltre, sotto, in verticale, la scena riflessa nel lago. Il ghiaino stropiccia sotto i piedi. Il viale che porta alla villa sembra infinito. Sulla sinistra il lago e un colonnato bianco. A destra un canneto. Mi domando quando il regista inizierà le riprese. Mi chiedo quando arriverà Clark Gable. La protagonista è gia qui al mio fianco. Io mi posso concedere al massimo una comparsata. Poco avanti  un promontorio si allunga nel lago. Dieci metri sopra la scogliera verticale, qualcosa si muove su un albero solitario, nutrito dalla roccia. Una figura si libra nell’aria, contro la città sullo sfondo. Scende verticale e sicura, elegante fino a scomparire nell’acqua. Un minimo schizzo. Da piccola lo facevo anch’io. Rabbrividisco, mi stupisco, ma ti credo cara, perché ormai di te non mi posso più stupire. Posso solo rabbrividire.

:-Dimmi ancora di lei Frank.

:- Ehi Johnny, che ti prende. Ci hai messo meno di me a farti conquistare.

:-Eri tu che volevi parlare di donne.

:-Si ma con una donna per Dio! Sant’Iddio, mi manca terribilmente il fiato. Prendimi dell’altra margaritas per favore. Che altro vuoi sapere?

:-Sei tu il narratore. Continua.

:-Ho fatto fatica a trovare le parole con lei, ora mi tocca sudare anche con te.

:- Per un motivo diverso mi auguro.

:-Certo, tu sei molto più brutto e non m’imbarazzi affatto e mi conosci sin troppo bene.

:-Lei non ti conosce?

:-Suppongo abbia iniziato, anche se non so che cos’abbia capito, o che lato abbia intravisto.

:- Non riesci mai a essere te stesso?

:-Il problema è che lo sono sin troppo. E me stesso gli vien più facile ascoltare e annuire e stare zitto e fare fatica a trovare le parole.

:-Mica in tutti i casi.

:- Ma in certi casi si. Nel particolar caso, questo era il primo caso in assoluto.

:- Qui pare che il caso la faccia da padrone eh Frank?

:- Allora il caso è stato un gran villano a farmi aspettare sin ora. Ma in compenso l’attesa è stata degnamente ripagata.

:- Ricordi Amis? “E’ tutta esperienza, peccato solo ce ne debba essere così ”…poca no?

:- Lei mi ha insegnato Johnny, che l’esperienza va cercata, va creata, va vissuta. Non possiamo rimanere ad aspettare, a tirarci indietro, a mettere fuori la testa per poi ritirarla al primo scroscio di pioggia. Siam dei gran fessi, dai retta a me, tanto più poi che ancora abbiamo da lamentarci.

:- Hahaha, ti vedo cambiato Frank, chissà quando ti vedranno gli altri.

:-Non sono mai stato tanto diverso da così, solo che ora ho preso coscienza di aver perso un sacco di tempo.

:- Dici?

:- Vorrei rubare a Lady Chander anche solo un decimo del suo passato per sentirmi più a posto con la coscienza. Per riempire un paio d’album. Ci son troppe pagine vuote e troppe con le stesse foto e se lo devi mostrare a qualcuno, e facile ci si addormenti sopra ed è inevitabile che come succede, tu abbia poco da dire.

:-Quello non dipende solo dall’intensità del passato però. Tu con me fai un gran parlare. A volte vorrei che stessi zitto. Ma non oggi.

:- Grazie Johnny, lo prendo come un complimento. Chissà perché a scriverle le parole, mi vengono molto più facili.

:-Forse perché non alzi gli occhi dalla tastiera e non incontri degli occhi di donna dinanzi ai tuoi?

I temporali qui mi dice, sono frequenti. Frequenti come i suoi sorrisi suppongo, visto che piove di nuovo. Ma i temporali sono belli se hai un margaritas gelato in mano e la pioggia calda dentro il colletto. E sono niente affatto fastidiosi se mangi le costine arrosto e del brasato che si scioglie in bocca, mentre lei ti rabbocca il bicchiere con vino dolce e gazzosa e fuori la pioggia inizia a battere contro le vetrate e i flash dei lampi illuminano la città giù ai piedi della collina e la guardi ora più sciolto dall’alcool e ti pare meno obbligatorio dover per forza trovare delle parole quando puoi semplicemente rimanere lì a guardarla, con la testa inclinata,  che in fondo è anche buffa e in parte stanca di tutta quell’energia vitale che si porta appresso, che sì, ti mette quasi quasi meno in imbarazzo. E sei lì da un ora e già ti trattano come uno di casa, tanto che dopo un po’ inizi a chiederti, se quei profili sorridenti non li hai gia incontrati altrove e se è la gente ad essere così o è lei così adorabile, da plagiare ogni testa in cui s’imbatte. Non riesco a sciogliermi oltre il limite di una certa distanza, nemmeno dopo una notte insonne di gomiti vicini ed alzati ed è giusto così perché la lunghezza dei passi, ha comunque un estensione massima naturale, oltre la quale, si è a rischio di strappo e caduta. Quindi sto li, dalla parte opposta del tavolo, a mangiare la tua colazione. Vorrei scompigliarti i capelli e dirti grazie, ma preferisco abbassare gli occhi sulle tue scorribande in fotografia e ridere che mi vien più facile.

:-Sai poi Johnny, i Signori Hemingway ci hanno invitati a pranzo.

:- Cristo Frank, son stati dei giorni dannatamente fortunati.

:- Maledettamente indimenticabili. Il camino era acceso e fuori era novembre e le ragazze si scaldavano davanti al fuoco e anche il cane, dopo un po’, mi ha preso in simpatia e allora ho pensato che era troppo perfetto e ho pensato meglio che vada e ho salutato e avrei voluto ancora del margaritas per annebbiare le emozioni e allontanarmi con la mente sgombra e tornare qui come se niente fosse successo.

:- E invece?

:- Invece lo sai. Sono un dannatissimo sentimentale che non ‘s’è fatto ancora uomo.

 

 

Nel cuore si fermeranno le emozioni, alle quali queste parole, non hanno potuto del tutto rendere giustizia.

Dedicato con affetto a C.

 

7 Risposte a “VILLA MARGARITAS”

  1. ehm….devo aggiornarmi per lasciare un breve commento…cosa che faro’ nn appena possibile perche’ piu’ che un dovere di gentilezza e’ un vero piacere

    ben ritrovato caro amico pestifero

    ma….sbaglio o ti sei innamorato?

    ciao a presto ^_^

  2. E questa volta più che mai sono felice di essere la prima a commentare, che mi manca il fiato e le parole nemmeno so più cosa siano.

    Sapevo cosa aspettarmi. Ma. Ancora una volta sei riuscito a sorprendermi.

    E grazie non renderà mai abbastanza.

    Ti bacio, delicatamente, intesamente, profondamente.

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