ROTTA PER CASA DI DIO

 

Zona industriale. Due vialoni deserti si incrociano nell’arancione dei lampioni elettrici, che ronzano nella quasi alba silenziosa. Ronzano con delle piccole scariche più intense a intervalli irregolari, come un friggi-zanzare blu elettrico, nelle notti d’estate.

Una croce apparente sulla fine della nottata, si stende orizzontale davanti a noi. Pennellata al suolo con geometrica precisione, in una pianura innaturale, di quadrilateri fra le montagne.

Il fondale di un vecchio lago preistorico.

Niente male se al posto di questi prati rinsecchiti, capannoni industriali e depositi di tir, ibernati dalla brina come in una sadica pratica di congelamento pro conservazione al futuro, ci fosse un laghetto azzurro. Un piccolo mare.

Con le spiagge bianche, le palme arcuate come aspirate dal riflusso delle onde, il tonfo secco delle noci di cocco nella notte stellata.

E sull’orizzonte sinistro sempre lei, la parete rocciosa della montagna. In cima le antenne e le parabole. Le grandi orecchie dell’etere. L’unico contatto con la civiltà. Una sezione di pandoro, con la sommità innevata di zucchero velato.

 

Ramazzati all’esterno anche dall’ultimo locale aperto e disponibile nell’arco dei soliti cento chilometri in cui spazia il campo d’azione del nostro radar finesettimanale.

Scopati fuori tra cocci di bicchieri conficcati nelle suole, incollati al pavimento e mantenuti in equilibrio dall’appiccicoso d’alcool, sperperato sul pavimento.

Gli occhiali storti da una manata ricevuta nella ressa. Scomodi e importabili come una felpa fuori taglia.

La maglietta bianca bagnata e attaccaticcia di uno spruzzo laser della barista, con la pistola della lemonsoda.

F. abbassa la radio. Rimane solo il galoppare intenso del motorino del riscaldamento. Mi alita in faccia il suo fiato caldo e neutro di estate fittizia. I piedi sono infilati in una sacca stagna di carboni ardenti. Sento la suola che sfrigola e si scioglie lentamente. Il caldo risale dalle piante dei piedi fino alle giunture delle ginocchia anchilosate dalla posizione.

Lo stop all’incrocio ci fissa con aria dubbiosa con la mano che si solletica il mento. Destra a casa. Sinistra autogrill.

 

E’ stata una serata anonima. Alcoolicamente ma anonima. Non ho visto nessuna occhiata particolare su di me.

Questo non mi piace molto. Non mi piace affatto.

Sono delle piccole pillole di conforto.

Ultimamente ne ricevevo qualcuna. Certe sere addirittura parecchie. Tanto da stordirmi.

Sono un tossico degli sguardi fugaci.

Ultimamente ne vado matto. Un tempo li odiavo.

Ti lasciano quella sensazione misteriosa e l’interrogativo dubbioso del perché ti guardo.

Sul quale puoi costruire tutto quanto ti pare. Ci puoi viaggiare intere notti.

Questa sera avevo bisogno che qualcuna mi guardasse un po’. Un occhiatina veloce dal basso verso l’alto, mentre mi strusciava addosso, nella ressa.

No niente parole. Le parole hanno troppe certezze.

Invece me ne sto qua troppo presente nella realtà, fatta di un lieve stordimento appena accennato insufficiente a coprire l’insoddisfazione. Mi sento vuoto ed ho bisogno delle mie pillole.

Il vino come sempre mi ha sciolto la lingua.

Sono stato parecchio brillante in gelateria.

Già, abbiamo una nuova moda. Alcolizzarci nella gelateria più in della zona. Con classe, si intende. Hanno del vino molto buono. E delle bevande davvero colorate. Ovvio poi producono anche gelati. Montagne di gelati. Ma per quelli ci sono le coppiette.

Fidanzati improponibili con gnocche in sfilata, che pareggiano le carenze di zuccheri.

Teneri teneri si guardano nelle palle degli occhi. Divorando palline diabetiche.

Lui ne ha due palle. :-Guarda cosa mi tocca fare per orizzontarla.

Lei ne ha due palle. :-Dio come vorrei farmi orizzontare da qualcun altro che non fosse un deficiente che mi porta ogni volta in gelateria allo scopo di orizzontarmi.

Le cameriere ne hanno due palle. Di noi. Quello è normale. Ci abbiamo provato con qualsiasi forma di vita e esistente avesse addosso un apparente divisa da inserviente.

Anche noi ne abbiamo due palle. Di non prenderla mai.

Domenica pomeriggio ripassiamo e una della cameriere mi da qualche pillola.

Se ne può parlare dopo che sarà passata dal gommista a farsi dare una gonfiatina.

Il vino come sempre mi ha sciolto la lingua.

Devo essere stato parecchio brillante in gelateria la scorsa sera.

Quegli insipidi cocktail colorati invece, ultimamente  devono avermi assuefatto.

Azzurro, rosa fashion e rosso porpora.

Mi ricordano il bicchiere lava pennelli dei colori a tempera dei miei primi e ultimi bozzetti di pittura artistica, alle medie.

Come sempre anche lì avevo un certo stile. Ho una buona predisposizione naturale iniziale per tutto.

Solo ho una predisposizione altrettanto naturale per non applicarmi in niente definitivamente.

Li ho bevuti tutti in un fiato, aspirando con la cannuccia corta, fino all’ultima goccia del liquido colorato infilato nei cubetti cavi di ghiaccio.

Diversamente dal prospettato, sono lievitato ad un livello superiore invece che scadere in basso.

Mi sono sollevato sulle punte fissando dall’alto, lo strato di nuvole sospeso all’altezza del torace.

Il limite della semplicità media nella quale mi calo in genere nel weekend.

F & T sono andati al broccolaggio di A. Sconfitti in partenza ma tenaci. Se non mi fossi d’improvviso estraniato dal mondo comune generale del sabato sera per stare qua con la testa troppo lucida sopra i banchi di nuvole, mi sarei sicuramente unito a loro.

A è un vero schianto.

Mi sono schiantato parecchie volte in settimana al suo pensiero, dopo che sabato scorso ce la avevano misericordiosamente presentata. Sabato scorso credo di averle regalato una rosa. Tutti le abbiamo regalato una rosa. Sabato scorso era sereno e non c’èrano perturbazioni da sopra le quali, osservare il pianeta, da non abitante.

Non mi piaceva un gran che stare li a guardare dall’alto F & T che ci provavano con A.

Ma non potevo diversamente.

La banalità e le frasi scontate mi erano evaporate o forse troppo diluite per poter partecipare competitivamente.

Diversamente però, viste le condizioni da assunto in cielo, avrei potuto prenderla per mano, portarla in un angolo silenzioso e verificare, se quel respiro a ritmo regolare che le gonfia la maglietta in modo cosi meraviglioso, ha un’altra funzione fondamentale.

Quella di irrorare d’ossigeno le menti. Vi dirò. Credo di si, ma vorrei verificarlo.

Diversamente però, avrei potuto guardarle le pupille e vedere se quegli occhi sensuali da danzatrice del ventre mediorientale, sono specchio o sono vetro. Credo vetro. Dietro a un vetro c’è sempre qualcosa da scoprire.. Vorrei verificare cosa.

Diversamente però, sono stato in silenzio e distaccato come sempre.

Ci sarà un’altra occasione per la fantascienza.

 

All’incrocio con la radio abbassata e il motore che tossiva al minimo nessuno aveva voglia di prendere la decisione per tutti. Ma tutti non avevano voglia di tornare a casa. Tutti avevamo una fame chimica di emozioni, da placare, e discrete pive del sacco, da lasciare sul percorso.

Abbiamo preso a sinistra per il casello dell’autostrada.

F. ha infilato nel mangianastri la cassetta gialla degli Ottoottotre.

Ultimamente sta diventando una specie di colonna sonora che si avvia in automatico, quando il sentimentalismo represso inizia a traboccare il vaso, a tarda notte.

Le testine martoriate allungano le vocali ai ritmi delle nostre stonature.

Le corsie corrono a nord sotto l’ombra fredda della parete verticale della montagna.

La notte non è molto notte, illuminata com’ è dal riflesso delle stelle, nella crosta gelata della piana.

Cielo e terra sono due specchi contrapposti, condannati  nella notte, a compiacersi e stordirsi delle proprie bellezze e dei proprio orrori.

Le ecoballe della discarica, impachettate nel cellophane verde pisello, formano egizie piramidi dall’aspetto futuristico. Chissà se custodiscono il segreto di qualche faraone. La sagoma mummificata di un toporagno con la maschera in PET.

L’autogrill appare come un miraggio sulla destra, nel deserto rettilineo di guard rail metallici e linee bianche di carreggiata, tutto luccicante e sfarzoso delle sue insegne.

E’ piccolo  e confortevole come la cucina di casa.

Ma superaccessoriato come un discount.

Il commesso è sorridente e gentile, soddisfatto e felice del suo contatto intimo con la notte da vivere.

Ho vuoti di insoddisfazione da saziare.

Un Capri mentre rovisto nel cesto dei CD. Un Vitellone mentre sbircio nel reparto dei giornaletti hard. La CocaCola è come sempre freddissima e piena di bollicine che mi solleticano il naso quando bevo.

C’è profumo di pane tostato e varie sottofraganze di dolci e presenza corporea. Qualche altra faccia giovane e insonne si affaccia sull’ingresso.

Mi aspetto che da un momento all’altro compaia una mamma inglese, appena sveglia in sottoveste, a stropicciarsi gli occhi attraverso la porta d’ingresso, con in mano un piatto fumante di eggs and bacon.

 

C’è un atmosfera amichevole, ritmi cadenzati e di poche parole. Mi lascio scivolare in basso lentamente, fino ad atterrare nuovamente nel mio lato A del sabato e domenica.

Non ho paura, ne disagio, ne sensi di colpa.

L’autogrill è per tutti ugualmente. Una fabbrica isolata, di conforto semplice, sorrisi di passaggio e pacche sulle spalle. 

 

9 Risposte a “ROTTA PER CASA DI DIO”

  1. una terza è da gonfiatina? perchè sai che il regalo di natale è solo nel template…e la mia autostima vacilla un pò dopo la definizione ricevuta ieri “sei una figa di nicchia, un pò come i Depeche Mode”.

    L’autogrill..montanaro spek e fontina e coca.Niente porno, magari Berserk.

  2. a me piace un sacco l’autogrill, mi sa di vacanaz. una volta chiedevo sempre il mio ex di portarmici per fare colazione…sembrava di essere diretti al mare!che bello…julina

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