CUORE INDOMATO

Scivolo sui calzini spugnosi attraverso le piastrelle ceramiche del corridoio, che sono alternativamente calde o fredde, a seconda di come, sotto, si snodano le serpentine calde dell’impianto di riscaldamento. Strascico i piedi cercando di seguire, i quadroni caldi di questa scacchiera irregolare. Il caldo è un serpente dalla corazza metallica lucente, che striscia in tante esse, sotto i granelli impalpabili delle dune dorate del deserto.

La camera dei miei è di un caldo asfittico e secco, avvolgente e confortevole come un abbraccio della nonna sovrappeso.

C’è profumo di camice stirate e bucato fresco, fatto alla fontana con la mattonella rettangolare del sapone di Marsiglia.

Il tappeto sotto i piedi è un prato rasato alla mattina ancora bagnato di rugiada, la lampada a stelo nell’angolo, proietta ombre in dissolvenza sul soffitto perlinato bianco. Lo specchio, circa a tre quarti di altezza, deforma l’immagine allungandomi il viso all’attaccatura della fronte, creandomi una faccia da monolite dell’isola di Pasqua.

Distolgo lo sguardo.

Sulla parete di fronte, una foto anni settanta dei miei, il giorno del matrimonio. Babbo in doppiopetto blu scuro da cerimonia, ancora in gran forma col mascellone a zigomi alti da muratore e il ciuffo ribelle. Mamma cambiata dell’abito bianco, l’aria stanca da fine serata e mal di testa tra le pieghe della fronte. Uguale ad oggi, solo col capello cotonato. Le teste inclinate, a sfiorarsi sulle tempie al centro.

A fianco, sfasati di metà quadro sulla sinistra, io, stranamente elegante, con un maglioncino a vi, di un color verde ago-di-pino-rinsecchito sopra la camicia bianca, i capelli dritti e lisci con la frangia, ancora senza occhiali e con una faccia da marmotta-fuori-dal-buco-in-osservazione.

Alla mia sinistra, il testone neonato di mia sorella in lacrime, con le guance rosso infuocate di Heidi.

Ho un ipersensibilità incontrollabile che mi si velano gli occhi quasi all’istante.

Accendo il buco nero del televisore e infilo il dvd nel lettore a basso costo del discount.

Sotto il cuscino i pigiami di flanella dei vecchietti. La gente in pigiama è buffa e debole e terribilmente terrena ed esposta e come malata di influenza e raffreddore. E fragilmente buona.

Partono gli applausi e le luci in bianco e nero dell’inizio concerto, che sono già rannicchiato al buio sotto strati di coperte diverse, che mi schiacciano sul materasso, come Willy Coyote sotto il masso in fondo al burrone.

Il volume è alto e dolcemente fastidioso ma gradevolmente sopportabile.

Mi metto panciasotto e col braccio sinistro cerco il comodino sul quale stendere il braccio. Ma non sono nel mio letto e il comodino è una penisola lontana e troppo bassa.

Infilo il braccio sotto il cuscino che dopo un attimo sento gia i tendini sfibrarsi e allungarsi per lo sforzo non naturale e l’articolazione perdere sensibilità e le formiche uscire dalla tana, infilarsi fra le dita e risalire il braccio fino all’articolazione in squadre ordinate in file, di dieci per dieci.

Chiudo gli occhi appena appoggiati senza stringerli forte..

In estate al mare, fissando per un momento il sole ad occhi chiusi, a pancia in su sulla sdraio, non si fa buio pesto, ma un tramonto infuocato di rossi e arancioni più o meno intensi. Ora allo stesso modo, vedo lampi di luci blu e bianche, che mi attraversano le pupille. Ho un temporale musicale dentro la camera.

Un filo di saliva mi cola dall’angolo destro delle labbra. Sprofondo in un dormiveglia incosciente tipico della dormita pomeridiana o dell’assopirsi improvviso in luoghi incomuni, quando gli occhi si chiudono pesanti ed automatici dalla stanchezza.

Sento sulla guancia, l’umidità vischiosa della federa intrisa di saliva. Giro il cuscino.

La stanza invasa da un unico suono a livello costante, è silenziosa come la notte. Ho un udito affinatissimo da animale cacciatore notturno. Percepisco la minima vibrazione.

Una cassa di risonanza a ritmo veloce, come tamburo ritmato in fondo a un pozzo dei desideri, inizia a pulsarmi sotto la zip rossa di cotone.

Il cuore è un purosangue nero, al galoppo più sfrenato, con la criniera al vento, il manto sudato e la schiuma che ribolle all’angolo della bocca.

Sto quasi dormendo. Qualcuno mi insegna che diversamente, dovrebbe essere un ronzino pezzato, che bruca tranquillo, fermo in mezzo al prato, a meno di cinquanta battiti al minuto.

Invece galoppa.

Ad ogni battito ho la sensazione che la forza impressa, tenda a farmi sollevare dal materasso.

Mi preoccupo e penso che forse lo sto schiacciando col mio stesso peso. Lo sento stretto, lì, angusto, ripiegato su se stesso, con le gambe strette al petto dall’abbraccio delle mani.

Mi giro su un fianco per farlo stare più comodo.

Dall’orecchio libero mi scivolano di nuovo all’interno, i suoni del concerto.

Dall’orecchio schiacciato sul cuscino, lo sento nuovamente, attraverso l’eco che si espande dal fondo della valle.

Lo sento pulsare al suo posto ed espandersi verso l’alto, premere contro la gabbia e trovare sbocco verso l’articolazione della spalla. Mi suona nella testa velocemente musicale, al ritmo della batteria o del picchiettare delle dita, sui tasti bianchi e neri del pianoforte..

Ho paura, ma allo stesso tempo è piacevole stare a sentire il mio motore al lavoro.

Solo non capisco.

E’ cosi imbizzarrito.

L’aria mi scivola dentro a fatica, tramite respiri affannosi incanalati dentro una tubazione metallica arrugginita, infilata fra i polmoni.

Quando la porta si spalanca, è passato un tempo indefinibile.

Un fascio di luci bianche invade la camera. Sbatto le palpebre, come un uccello alla prima lezione di volo, sbatterebbe le ali inesperte.

Per un attimo credo che il bagliore bianco che mi si è aperto sulla destra, sia il tunnel di transizione tra vita e morte, quel tunnel asettico e indolore, che qualcuno andato un po al di la del coma, dice di aver percorso quasi fino in fondo.

Poi metto a fuoco la figura piccola con le mani sui fianchi, sulla soglia.

I vecchietti vogliono andare a dormire.

Mi tiro a sedere sul letto e poi in piedi.

Ho il corpo anestetizzato e sembra che le gambe non siano in grado di sostenere il mio peso. Ho milioni di formiche addosso, che cerco di schiacciare battendo i talloni a terra.

Mi infilo in bagno.

La lampadina proietta sulle ceramiche, una luce fredda di vuoto da sala operatoria.

Mi lavo i denti. Faccio scivolare un parte di dentifricio giù per la gola, a coprire il sapore metallico del cuore che era risalito.

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