VITA DI PAESE

Il marmo bianco del balcone è freddo, ma soprattutto duro e poco confortevole, sotto il sedere, e la pelle della schiena nuda, si appiccica come una ventosa, sul vetro della finestra aperta, alla quale sono appoggiato.

Infilando la testa attraverso le ante d’oscuro serrate, ma con la griglia mobile aperta sull’esterno, respiro nelle narici, l’odore intenso del legno bagnato dalla pioggia che cade obliqua sotto la gronda. Pare di stare in un bosco, con gli alberi appena tagliati, rovesciati al suolo e lucidi di rugiada, con la fragranza della pasta di legno umida e viva, che si spande nell’aria.

L’asfalto steso di recente, assorbe l’acqua come una spugna assetata.

Mi rivedo in lui. Acqua a parte, si intende. 

La superficie è di un nero intenso, con l’effetto lucido oleoso, appena accennato. Nessuna pozzanghera, se non quella solita lì, due case avanti, in prossimità del tombino. Un accumulo d’acqua non defluita, che da anni, regolarmente, è il mio indicatore meteorologico della notte, o del pre risveglio. L’intensità del rumore dello schizzo d’acqua al momento del transito delle automobili, è il mio infallibile Colonnello Giuliacci casereccio. Ancora sprofondato nella massa pesante del piumone invernale, o appena avvolto in un lenzuolo estivo, di primavera o d’autunno, a mezzanotte o all’alba, ho la preveggenza del tempo che mi aspetta fuori. Prima di aprire gli occhi.

E’ avvilente. Riluttante. Nelle mattinate di pioggia, odio quella pozzanghera.

Stasera avrei preferito un temporale.

Di quelli intensi, ma brevi, tipicamente estivi. Il cielo incazzato dalla pelle scura, blu quasi violacea, un ematoma che nasce all’orizzonte e si spande rapido nell’aria, catarifrangendo al suolo, le luci ancora intense della sera. E poi gli scrosci di pioggia, violenti, senza forma ed ordine, come secchi d’acqua sopra un incendio domestico. Come una scarica di bestemmie e sproloqui. Attimi di furia, le strade allagate, il traffico che procede a fatica, come attraverso un guado. Le gocce più leggere, portate da aliti furiosi di vento caldo, che ti bagnano la faccia, fresche e umide, mentre stai affacciato alla finestra, ad ammirare i fulmini. A contare i secondi che trascorro tra il lampo e il tuono.

Trecentosessanta metri al secondo. Chissà dove sarà caduto?

Il calore della terra che evapora dal suolo sotto forma di nebbiolina e l’odore inconfondibile della polvere che prova a sollevarsi, come un pugile suonato. Pronta ad essere rimessa al tappeto, da gocce grosse come gavettoni. Poi, giù ad est, già i primi squarci. Azzurro, o il rosa pallido della sera. Mentre da ovest, arrivano soffocati, come sottovoce, i brontolii sordi del tuoni in allontanamento.

Il temporale come arriva, poi se ne va. Tutto sommato, mi sta pure simpatico.

Tipo quegli amici, vabbè, che se li vedi, ti fai volentieri due chiacchiere e un bicchiere. Tanto lo sai gia. Qualche minuto in cui dirsi tutto, raccontarsi a perdifiato e poi via. Alla prossima. A volte passano, sembra che vogliano fermarsi, e invece solo un saluto con la mano.

A volte i temporali non piovono neanche. Escono soltanto a fare due passi per scaricare lo stress.

Questa sera invece, cade una pioggia d’autunno.

Di quella convinta. Sottile, a file ordinate e regolari.

I contadini dicono che questa è la pioggia migliore. Perché bagna il terreno, entra in profondità. Guardo sporgendomi, verso l’ingresso del paese. Nebbia bassa e fitta, riesco a vedere solo un paio di edifici più in là.

Ci sarebbe comunque poco da vedere.

Distinguo vago in lontananza, come in una risoluzione dai pixel troppo scarsi, l’occhio verde del semaforo limita-velocità. Le lampade della nuova illuminazione pubblica dalla luce arancio periferia, scomposta nelle particelle d’acqua sospese a mezz’aria, creano un atmosfera ironicamente extraterrestre. In effetti qua, fuori dal mondo, lo siamo davvero. Marte, il pianeta rosso.

Mi guardo attorno, curioso più che impaurito, cercando qualche forma di vita.

Magari amica. Niente, solo atmosfera arancio metallica e silenzio.

La situazione visiva, è assimilabile a uno di quei tramonti anomali, troppo infuocati, che di rado capitano in montagna, se non per un fortuito posizionamento a specchio, di sole e nuvole.

Vado avanti a leggere.

Ho beccato un bel libro, di quelli che scorrono bene fra le dita. Se gli occhi non dessero forfait troppo rapidamente, già spremuti durante la giornata davanti al pc, questo me lo sarei divorato in un paio di giorni. A morsi. Come un panino gustoso.

Il brutto delle pagine ora sotto gli occhi, è che manco farlo apposta, questi stan sempre in giro, da veri scozzesi, a farsi una pinta dietro l’altra, con un amico dietro l’altro. E c’hanno anche un bel nugolo di passere, con le quali spassarsela, o solo fare due parole e una canna, o su da me, o su da te.

E a me cacchio, sta venendo una gran voglia di dialogo.

Ma son qua solo come un pirla, col culo quadrato sopra un sasso.

Mia madre fuori in cucina al telefono è l’unico essere vivente nei paraggi. In ‘sto paese del cacchio col quale ho tagliato i ponti, c’ho manco un amico. Della serie tutti mi salutano, ma di mettere piede nel bar, non se ne parla. Mi guarderebbero storto, come nei film western, gli abitanti guardavano lo straniero che arrivava all’orizzonte del paese, col cavallo e il cappello calato sugli occhi. Mi ronza gia nelle orecchie la musica di sottofondo di Sergio Leone.

Ho la testa troppo metropolitana per ‘sta gente qua.

Di che cazzo vuoi parlare. Dopo due minuti questi grezzoni rusticani, attaccherebbero coi trattori, campi, macchine e juventus e sarebbe una solfa troppo insopportabile. Con i miei amici perlomeno si finirebbe a parlare della sana e vecchia gnocca. Ma figurarsi se nell’infrasettimanale, escono di casa. Si poi già, stanno pure dall’altra parte della valle, che in linea d’aria son trecento metri, ma con ‘sta dotazione di infrastrutture che ci ritroviamo, son dieci chilometri di curve e tornanti. E poi non ho voglia di vedere manco le loro di facce, che già nel weekend dopo settantadue ore di frequentazione, facciam fatica a trovare qualcosa da dirci. Meglio tener gli argomenti in fresca.

Mi ci vorrebbe un appartamentino tutto mio e un amichetta anche non tutta mia.

Ma il locale è lì che mi guarda dall’altro lato della strada, e sarà libero solo fra un annetto. E vabbè l’amica non ve lo dico, che mi vengono i brividi solo a pensare dove diavolo la vado a trovare.

Anzi, vi posso dire una cosa? Dio bono mi sa tanto che non ce ne ho manco una, del tipo da dirle :- ehi ciccia, che fai stasera? Ti va di fare un salto da me. Ho del vino da stappare e due pensieri…

Sto messo che sono un gioiello da televendita. Un pataccone di vetro colorato.

Mi gratto il mento preoccupato, ma tempo un paio di minuti, e ho già rimandato il problema a data da destinarsi. Per la verità una telefonata a qualche allegra figliola giù in città, non è che farebbe male alla stanca della serata.

Prendo il cellulare, lo guardo, lo agito, lo sporgo dalla finestra. E’ scarico e non c’è campo. Te sei fortunato che non ti butto giù in strada, brutto stronzo figlio della tecnologia. Potrei provare con i più classici e meno intrusivi sms. Ma la tastiera è guasta e finirei per svegliare il quartiere, a furia di bestemmie nervose. Lasciamo perdere, tanto le pollastre giù in città, c’avranno sicuro i loro impegni e a me non mi va di fare lo scocciatore e tanto meno di sentire squillare il telefono a vuoto.

Il cellulare finisce lungo disteso sul tappeto.

Pagina trecentoottantasette. Colpo di Culo. E’ il titolo del capitolo. E anche quello che servirebbe a me.

Con la bassa pressione, gli odori sono più percettibili, perché non hanno spazio di espansione verso l’alto. L’odore di sigaretta, sigaretta fumata, mi arriva al naso in un istante. Lo distinguerei fra centinaia. Mi affaccio e lui e lì. Appoggiato con una spalla al muro, sotto un portico che non è neanche quello di casa sua. Lo ZioRenzo. Il Clint Eastwood de no’altri. Sotto il cappello dell’ Ortal calato sul naso, il capello lungo, ingrigito e irrimediabilmente sporco. La barba incolta sopra la pelle, arsa e cotta come un mattone dal sole. I vestiti della campagna, che probabile, lo terrebbero in piedi da solo per quanto sono sporchi. E’ uscito di casa per farsi due chiacchiere. Forse solo per accendersi l’ennesima cicca, nel fresco della sera umida. Forse solo sta lì a guardare il traffico. Per avere qualcosa da osservare. Immagini per riempire il tempo. Lo stesso mio bisogno.

Quello è una specie di punto di ritrovo. Tra poco ne arriveranno altri come lui. Ma con meno carisma. Senza l’odore vivo addosso del fumo. Lo guardo, lo sento nelle narici, ed è come entrare in un’altra epoca. La vita gli ha vissuto addosso pesantemente per sessant’anni dando il peggio di se. Lavoro, niente donne, magre soddisfazioni e il paese come una gattabuia.

Ma lui è l’unico che non gliela ha data vinta.

Gli altri li vedi. Molli e curvi sotto il peso del tempo che cresce. Lui, come una statua celebrativa di bronzo in mezzo alla piazza, se ne sta lì, ancora ben saldo sul piedistallo. Un po’ di ruggine, il colore slavato e le scagazzate delle rondini. Ma lui se ne frega, temprato dall’assiduità e indurito dall’abitudine.

E gli fanno un baffo quelle che per me sono assenze.

Forse lui non sa, e questa è la sua fortuna. Non sa cosa c’è, oltre il raggio d’azione della sua esistenza.

Io invece l’ho visto. L’ho visto, e me lo hanno raccontato per i posti dove non sono ancora arrivato. E quindi sono fregato.

Incrociamo gli sguardi, io dalla finestra, lui dalla strada. :-Hei! Alza il capo in segno di saluto. Pura voce da bluesman. Ruvida e nera come la superficie di un trentatre giri. Gli alzo l’indice e le sopracciglia.

Non ho la testa per poter resistere come lui. Me l’hanno già contaminata. Sgrezzata. Mi hanno aggiunto dei circuiti.  Ho troppi aggiornamenti in download.

Spero che questa cazzo di sera finisca presto.

 

15 Risposte a “VITA DI PAESE”

  1. Ogni tanto anche nelle metropoli capitano queste serata. Momenti in cui ti senti fuori posto, diverso. Pensi che magari ti piacerebbe essere in un altro luogo e perchè no, magari anche in un altro tempo.

    A me piace sentirmi così.

  2. “Ho del vino da stappare e due pensieri…”

    Io ho il mirto, al posto del vino. Ho anche i pensieri.

    Ho anche un amico, forse anche due, per bere insieme e far evaporare i pensieri, per fortuna.

    Ma arrivi ad un punto in cui non è più sufficiente bere vino e dare fiato ai pensieri insieme ad un *amico*.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.